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Quando l’amicizia geniale diviene tossica: "Da parte loro nessuna domanda imbarazzante" dei Fanny & Alexander

di Altre Velocità

Amica Geniale di Elena Ferrante racconta l’amicizia (dall’infanzia alla vecchiaia) tra Elena Greco (detta Lenù) e Raffaella Cerullo (detta Lila). Il filo conduttore che unisce il prologo del primo libro al capitolo finale dell’ultimo sono le bambole Tina e Nu che, perse da bambine nello scantinato del mafioso Don Achille, capo del rione in periferia di Napoli dove appunto vivono le due amiche geniali, vengono recapitate a Elena a Torino alla fine della saga. Lo spettacolo è diviso in due parti: una prima (l’Amica geniale, una lettura) in cui le attrici interpretano le due bambine che, per dispetto reciproco, gettano le loro bambole, l’una quella dell’altra, nello scantinato di Don Achille; una seconda (Storia di due bambole, fotoromanzo animato) in cui Chiara Lagani e Fiorenza Menni sono le bambole prigioniere nel buio del seminterrato (qui hanno optato per l’utilizzo di versi liberamente ispirati ai testi di Wislawa Szymborska, Lyman Frank Baum e Toti Scialoja, che hanno la funzione di evidenziare la situazione claustrofobica. In un connubio perfetto Lagani e Menni incarnano e associano contemporaneamente («Siamo due colori che si fondono in un unico colore, una sola voce con due corpi»), sia verbalmente che fisicamente, la sofferenza e la morbosità del rapporto di Lenù e Lila con quello delle due bambole perdute per decenni. La scelta di movimenti meccanici e ripetuti, tramite i quali le due attrici si rincorrono copiando e anticipando vicendevolmente quelli dell’una e dell’altra, dialoga coerentemente con i romanzi della Ferrante: l’amicizia tra Lenù e Lila è fatta di meccanismi di potere e sopraffazione, ogni rapporto paritario è escluso; la corsa per il controllo è costituita da continui spintoni e rincorse. I Fanny & Alexander optano per un uso della voce alternato che da un registro urgente, straniante, spinto dal bisogno di raccontare, passa per brevi istanti a uno falsato, innaturale, proprio di quando da bambini proviamo a dare la voce a oggetti inanimati. Le due parti dello spettacolo si contaminano costantemente in maniera reciproca: Elena, Raffaella, Tina, Nu sono un tutt’uno, i loro corpi meccanizzati e ossessivamente ripetitivi appartengono a tutte e quattro contemporaneamente: sono quelli vivi delle due protagoniste e quelli inanimati delle due bambole. I rapporti interpretativi entrano in cortocircuito, i personaggi non esistono e non sono identificabili; di loro rimane soltanto il rapporto d’amicizia. La contrapposizione tra i costumi bianchi della prima parte e neri della seconda vengono fagocitati dalla scenografia perennemente scura, che rappresenta contemporaneamente sia il rione dove le due bambine giocano e vivono sia lo scantinato di Don Achille: entrambi bui, entrambi senza possibilità di uscita. Alla fine dello spettacolo le due attrici cercano le bambole al buio tra le file degli spettatori: in quel momento ho capito che siamo tutti bambole, viviamo tutti in un rione, siamo tutti perduti ma, contemporaneamente, siamo tutti anche coloro che cercano.

Francesca Lombardi

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