altrevelocita-logo-nero

Qualche elemento per l'Architecture di Rambert. Vie Festival Daily #1

di Altre Velocità

Dal 21 febbraio al primo marzo si svolge in Emilia Vie Festival, organizzato da Ert – Teatro Nazionale, una rassegna che porta in Italia la ricerca teatrale internazionale e italiana. La redazione di Bologna Teatri sperimenta un racconto quotidiano in tempo reale con recensioni, cronache, immagini. Buon festival!


Quando immaginiamo un gruppo di attori sulla scena, spesso pensiamo all’idea di un legame profondo che possa tenere uniti ognuno di loro.
La quinta teatrale che comprime il palcoscenico della vita, sembra presentarci i personaggi di un contesto che in qualche modo percepiamo familiare; utopico o reale che sia. È di una famiglia di cui ci parla Rambert, nel suo ultimo spettacolo, presentato per la prima volta in Italia all’Arena del Sole nell’ambito del Festival Vie (replica anche oggi alle 16.00). È una famiglia che si è dedicata alla bellezza e attraverso di essa ha posto il proprio tassello nel mondo. È una famiglia di pensatori, di scienziati ma soprattutto di artisti.
Rambert sembra aver scritto tutto questo proprio per loro.
«Scrivo Architecture per Audrey Bonnet, Emmanuelle Béart, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, nonché per Jacques Weber, Denis Podalydès e Pascal Rénéric (…) Dopo 25 anni di attesa, dico a Jacques Weber voglio scrivere per te e che tutti questi nomi, compreso il tuo, convergano in Architecture».
Per Emanuelle Béart aveva già scritto Répétition, per Laurent Poitrenaux aveva realizzato Argument. Restituendoci, forse, quel ritratto a cui qualcuno di noi è particolarmente affezionato. Per Audrey Bonnet ha scritto Cloture de l’amour, uno degli spettacoli che ha reso il regista francese noto al pubblico bolognese, dove due attori che non dialogano mai attraverso il monologo si domandano della fine del loro amore.
Ma anche Pascal è un pensatore e non sono solo gli attori a suggerire la complessità delle sue opere.
Dopo aver assistito alla prima nazionale del suo spettacolo proviamo ora a percorrere alcuni piccoli tratti di quello che compone la grammatica dell’artista.

Chi è Ludwig Witggenstein?
Prima di diventare scrittore, Rambert aveva intrapreso gli studi di filosofia, come Stan, il personaggio, cui neanche il padre potrà negare l’abilità di produrre un concetto: «Sei l’inventore perspicace del dubbio rispetto al linguaggio, in confronto a te possiamo solo perdere», ammette colui che per troppo tempo ha mostrato furore e terrore.
Il regista, anche se non terminerà mai i suoi studi, porta in ogni suo testo la riflessione profonda tipica di chi fa filosofia. La manipolazione della parola si rivela capace di mettere in luce il concetto poetico per cui la semantica di Ludwig Witggenstein acquista un’importanza tale da poter individuare nello studioso del secolo scorso la figura di un vero e proprio maestro.
E anche in questo caso, la complessità dell’espressione di Pascal si fa forte. Un uomo posseduto dalla rabbia introduce la rappresentazione. Vigoroso e imponente è il timbro della parola che si costella di giochi fonetici dall’apparente assenza di significato. Balbettii e ritmi sonori che descrivono il tormento che incombe.

I danzattori di Pina Bausch
Il teatro di Rambert è di parola ma anche di corpi che si esprimono attraverso il gesto.
Pascal è uno scrittore pensatore ma è anche un coreografo e, pensando al corpo nella sua dinamicità, non ha potuto rimanere indifferente all’innovazione di cui Pina Bausch si è fatta portavoce. I ballerini che muovono i suoi passi non sono semplici ballerini, li chiamavano i danzattori; lavorano sull’espressività del movimento e possono trasformarsi in autori e attori di uno spettacolo in grado di rompere qualsiasi barriera. Gli attori di Rambert, a loro volta, non possono che raccoglierne il retaggio, e si muovono con un’armonia che sa coniugarsi e corrugarsi, esprimendo la fisicità di un corpo che rivela tutta la sua massa interiore. Non è un caso che sia una danza, il Ballo della partenza, a scandire le coppie dei personaggi che, ebbri, si stanno avvicinando verso l’inevitabile disfatta.

Lo scarafaggio
Nel corso della rappresentazione l’equilibrio e l’armonia dipingono l’ambientazione. Il bianco è la tinta dei vestiti, eterea sembra la loro presenza. Il tormento che si scaglia attraverso le parole è fumoso come il paesaggio che, contemplato dai personaggi, sembra non poter essere da loro mai realmente vissuto. Invocano Vienna, guardano la natura e attraverso lo scorrere di un fiume osservano il silenzio. È così che l’immagine di un insetto si oppone ad una realtà data per massimi sistemi. Uno scarafaggio che scava tunnel e gallerie e ci riporta all’immagine della terra.

E lo Iato?
Lo iato di per sé è una contraddizione, è una dicotomia. Si usava ai tempi della Grecia antica ed è reso per raccontare il dramma di Architecture. Si tratta di un complesso di pulsioni dove l’umanità sta a metà tra desiderio e realizzazione.
La tragedia di Rambert è ambientata tra le due guerre, a metà tra due delle atrocità che hanno reso l’uomo simile a una bestia. Nessuna salvezza sembra infatti contemplata, nessuna ferita sembra rimarginata.
Ma sulla scena una bambina di dieci anni con lo zainetto di Hello Kitty: «Avete detto che bisognava prepararsi a un’epoca che non avevamo immaginato?”». Forse solo lei, allora, lo potrebbe fare.

Marta Pezzucchi

]]>

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.