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Politttttttico. Sette scomparti per "Va pensiero" del Teatro delle Albe

di Altre Velocità

Va pensiero, la cui regia è curata da Marco Martinelli e Ermanna Montanari, è tratto da un reale avvenimento di cronaca e racconta la storia di Vincenzo Benedetti, vigile urbano di Brescello, provincia dell’Emilia Romagna. La vicenda si snoda attorno alla figura corrotta del sindaco, “la Zarina” (magistralmente interpretata dalla Montanari), che, accompagnata dall’inconsapevole segretaria Licia, decide di realizzare un progetto criminoso con la collaborazione di Antonio Dragone, imprenditore ‘ndranghetista, Edgardo Siroli, funzionario dell’ufficio stampa del Comune, Stefania Sacchi, consulente finanziaria. Ecco che intorno a questo nucleo si stagliano le figure dei gelatai Rosario e Maria, fuggiti dal sud a causa della mafia, ma che ora si ritrovano nella stessa scomoda situazione. «Impossibile!» direbbe Omero, cittadino di provincia che non crede all’esistenza della malavita nel suo amato paesello, e che, in mezzo a questo “pantano”, sente un’esigenza premere irrimediabilmente più forte di tutte: cacciare le nutrie, il vero problema odierno. In tutto questo, il vigile urbano, appassionato di giornalismo e autore di articoli scomodi, viene licenziato per aver intralciato con il suo onesto servizio il percorso scellerato del sindaco, della ‘ndrangheta e delle giunte comunali. Lui, in tutta risposta non batte ciglio, conscio dell’ingiustizia ma non disposto per nulla al mondo a diventare complice dell’ingiuria e a piegare la schiena. Sofia Longhini [caption id="attachment_1696" align="alignnone" width="767"] ph Silvia Lelli[/caption] Nel 1991 Grotowski, in un seminario di dieci giornate tenuto a Torino, dava una brillante definizione di “narrazione antica”: quando si racconta una storia lunga, specialmente se si tratta della vita reale di un uomo, ci si concentra solo su alcuni momenti salienti, su alcuni episodi che vengono approfonditi, esaminati, raccontati fino in fondo. Questi avvenimenti, così raccontati, perdono la loro precisa collocazione storica e si ritrovano sospesi in un tempo “antico”, “mitico”. Diventano leggenda. Va pensiero del Teatro delle Albe racconta la vicenda reale di un vigile urbano di Brescello, un paesino della provincia di Reggio-Emilia, che denuncia i crimini di mafia e il sistema corrotto dell’amministrazione comunale. Ma la storia di Vincenzo Benedetti, il protagonista della drammaturgia di Marco Martinelli brillantemente interpretato da Alessandro Argnani, non si delimita in un paese o in un preciso momento storico. La storia di Benedetti ha luogo in un posto e in un tempo “mitici”: il paesino corrotto e non meglio identificato diventa simbolo del pantano dell’Italia intera. Così la vita di Benedetti diventa leggenda e le sue gesta (il ritorno al paesino, i primi scontri con i calabresi, la scoperta graduale della corruzione dell’amministrazione comunale, gli articoli di denuncia e il licenziamento) diventano di gran lunga più epiche di quelle appartenenti ai famosi eroi mitologici. Viene da pensare al ruolo del teatro stesso e più in generale dell’arte oggi che diviene nel suo piccolo portavoce di una moralità e di un’etica collettiva, scontrandosi con un’amara realtà più grande. Un teatro che, soprattutto nella grande agitazione politica di questi giorni, non si schiera politicamente ma vuole dare voce alle sofferenze e le richieste di aiuto dei più deboli. Valeria Venturelli [caption id="attachment_1698" align="alignnone" width="678"] ph Silvia Lelli[/caption] In Va pensiero si delineano precise scelte nella resa dei rapporti tra regista, spettatore e personaggi. A guardare questi ultimi sono gli occhi esterni e distanti di chi, tramite il barlume di giudizio, può puntare il dito e riconoscere chi si comporta da bravo cittadino e chi no. Un richiamo, forse non subito lampante, potrebbe ricondurci a Brecht, che indirizza il suo teatro epico allo straniamento, quell’effetto di distanza reso dall’attore che non si identifica nel personaggio e nell’ambiente circostante, grazie tra l’altro all’uso di vari elementi che pongono una linea di confine tra realtà e rappresentazione. Qui, con la stessa funzione dei cartelli brechtiani, troviamo proiezioni sul fondale a indicare il tipo di coro rappresentato, le ambientazioni delle vicende, fino a spiegare allo spettatore che alcuni eventi in scena sono realmente accaduti. Ecco che dunque si fa chiara la tendenza a voler mostrare anziché essere, a voler rappresentare, anziché permettere l’immedesimazione. Non ci resta che rimanere affascinati e empatizzare con il vigile urbano protagonista, sempre però relazionandoci a lui, e ancor di più agli altri personaggi, con una distanza e un’inclinazione alla critica non trascurabile. Capaci di ricondurre ognuna delle figure che si stagliano sul palco a categorie stereotipate di chi, ancor prima che alla scena, appartiene alla vita di tutti i giorni. Sofia Longhini Immersi in questa Emilia plumbea, il sole che dirada la nebbia, che risplende sui campi e in mille bagliori si posa sulle placide acque del Grande Fiume è come inghiottito in un’eclissi morale e civile che tutto vela, tutto rende indistinto. Collusione, corruzione, negazione della realtà – la mafia?! Queste cose non succedono da noi! – sembrano essersi infiltrate a fondo, persino in queste terre emiliane un tempo laboriose, generose, popolari. La caratterizzazione dei personaggi riflette questo sfondo per contrasto, tratteggiando profili estremamente stilizzati, figure piane del buono, del malvagio, dell’innocuo, destinate univocamente a uno solo dei versanti di una dicotomia tracciata senza esitazioni e riserve. L’impressione che ne deriva è che il loro senso e la loro funzione si risolva completamente nell’unico personaggio davvero ambivalente: “la Zarina”, afflitta dalla nausea che contorce chi oscilla tra dannazione e redenzione, parimenti insostenibili. Da questo scontro di forze si leva un canto, il canto della terra, di quelle terre che sotto la speculazione ancora custodiscono la memoria, terre verdiane in cui resiste l’eco del Risorgimento, di quell’immaginario, dei suoi ideali. Al coro il compito di rievocarli, di far risuonare ancora quel pensiero che parlava di Patria e di speranza quando il giogo sembrava impossibile a scuotersi. Davanti a dominatori nuovi, traditori della Patria perché nemici subdoli del bene comune, il canto verdiano intende risvegliare le coscienze per un rinnovato Risorgimento, perché si stringano a coorte attorno al civismo eroico e umile del vigile Ungaro. Per quanto concettualmente apprezzabile sia il richiamo esplicito a Verdi e alla sua opera, sul palco cronaca e lirica faticano a fondersi in un nuovo messaggio: il canto suona lontano, distante nelle parole e nei valori. Forse il cielo è troppo lontano dalla terra, gli avi soltanto fantasmi. Gianluca Poggi I fondatori del Teatro delle Albe sono gli autori di questa splendida creazione corale dove la storia si ispira a un fatto di cronaca, quella del vigile urbano di Brescello Donato Ungaro. Spettacolo di protesta, che denuncia ad alta voce il male che affligge la nostra bella Italia, soprattutto quello scaturito dalla mafia, voce che Martinelli conferisce ai due cori che sono elemento centrale dello spettacolo. Già il nome è una protesta: Va pensiero, il più famoso coro della storia dell’opera melodrammatica, collocato nella parte terza del Nabucco di Verdi, e il suo testo più attuale che mai attraverso le parole «oh mia patria sì bella e perduta». Lo spettacolo presenta una frammentazione del tempo e dello spazio sia immaginario che scenico. Infatti la storia viene raccontata mediante un susseguirsi di episodi separati tra di loro, ripercorrendo le vicende di una piccola cittadina nel territorio emiliano-romagnolo. Anche lo spazio scenico è suddiviso in vari punti, ad esempio sul fondo del palco, attraverso un “velatino” nero (telo semi-trasparente), possiamo intravedere il coro Alessandro Bonci di Cesena che, sotto la direzione di Stefano Nanni, esegue dei canti dal vivo. Il coro musicale, quasi impercettibile agli occhi del pubblico, evoca una dimensione “retroscenica”: esso infatti, pur non essendo visivamente parte attiva della scena, lo è attraverso la voce e il suo canto agisce come un sibilo melodico che si insinua nella coscienza dello spettatore. Gli attori, invece, sono ben visibili e comunicano direttamente col pubblico. Gli episodi sono intervallati da veri e propri “stasimi” dove tutti gli attori sono chiamati in scena a formare un coro parlante, dando voce ad una coscienza comune e riproponendo la funzione del coro greco tragico. Maurizio Dall’Acqua  


  «Le nutrie! Le nutrie sono un problema gravissimo che va risolto all’istante» questa è una delle battute ripetute alla Sindaca dopo uno dei tanti colloqui avuti nel suo ufficio con uno dei cittadini e anche amico d’infanzia. Sì, perché sono le nutrie che si stanno divorando il nostro paese e la nostra regione, moltiplicandosi di anno in anno fino a diventare milioni e arrivando ad attaccare anche l’uomo, rendendo impossibile la vita alle persone per bene. Probabilmente il problema delle nutrie sarà stato interpretato da molti del pubblico come un intermezzo divertente e leggero per smorzare un po’ la tensione presente nell’aria a causa delle divergenze tra il vigile Benedetti e la Sindaca, ma la vera metafora da cogliere è sottile e elegante. Il problema viene sollevato quasi a inizio spettacolo, ancora prima che la gelateria in piazza Mazzini venga chiusa, ancora prima che la mafia dei calabresi venga fuori: sembra proprio, allora, che queste “nutrie” in realtà non siano altro che un modo alternativo di chiamare i malavitosi. Le caratteristiche sono le stesse: si moltiplicano in terre che non sono le loro, distruggono argini e fondamenta solide nelle città, arrivano e nessuno se ne accorge. A concludere lo spettacolo c’è lo spaccato di dodici anni dopo i fatti che hanno coinvolto il vigile Benedetti, dove ogni protagonista delle vicende collegate alla mafia rivela il proprio futuro, e così veniamo a sapere che il problema delle nutrie non è stato risolto ma anzi, è ancora ben presente nel territorio e radicato nelle basi del terreno. Che sia quest’ultima affermazione un attacco velato per sottolineare la presenza ancora viva della mafia nella nostra regione e in altri territori anche del nord? Eleonora Poli Va pensiero è, in tutta evidenza, un’opera a più voci: un coro di attori interpreta, un coro musicale lo accompagna. Ma c’è una voce che, scansando ogni metafora, si staglia materialmente al di fuori e al di sopra della coralità, ed è quella del sindaco della «dolce cittadina circondata da valli e specchi d’acqua» ove ha luogo la vicenda, colei che per tutti è “la Zarina”. E quella voce si distingue non soltanto perché appartiene a una attrice del calibro di Ermanna Montanari e, dunque, a colei che alle potenzialità della phoné ha dedicato uno straordinario studio di cui torna a dare magistrale dimostrazione. Ci riesce anzitutto perché è la voce de “la Zarina”, di un personaggio “piegato”, ancora una volta non solo metaforicamente: è così, infatti, che si presenta al pubblico, piegata su sé stessa nello sforzo di contenere continui conati di vomito; ma è anche colei che ha dovuto piegarsi alle volontà paterne, ritrovandosi costretta a vestire una indesiderata fascia tricolore, e a quelle dei criminali con i quali è collusa. Ma è proprio grazie e attraverso queste “piegature” che si riesce ad intravederne tutta l’umanità e la complessità. “La Zarina” è infatti l’unico personaggio, a dispetto della varietà di caratteri chiamata in causa, del quale riusciamo ad avere un ritratto sfaccettato, di cui riusciamo a conoscere i tormenti interiori, le titubanze, in cui finiamo per riconoscerci, grazie soprattutto alla potenza di un monologo in grado di mandare in frantumi la quarta parete sostituendovi uno specchio in cui lo spettatore non può che riflettersi: «pensateci, chi di voi non l’avrebbe fatto?» Mariangela Cicciarella   [caption id="attachment_1701" align="alignnone" width="767"] ph Silvia Lelli[/caption] (Ingresso pubblico. Buio. Apertura sipario. Il personaggio del sindaco, conosciuto come “la Zarina”, è posizionato di profilo al centro del palco e indossa un vestito rosa striato e dei tacchi neri. Una luce forte e tagliente, proveniente dalla quinta di destra, colpisce la figura intera dell’attrice che intanto resta immobile, con lo sguardo fisso e orientato a un fuori della scena e ben salda con i piedi a una pedana rettangolare e poco rialzata posta quasi al centro. Per alcuni secondi la scena rimane immota e non accade nulla. Come nel gioco degli scacchi, la pedina resta inerte nella casella. Riprende fiato. Medita sulla mossa successiva da compiere. Lei è la regina, è il pezzo più potente del gioco, gode di un’enorme mobilità, punta ad assaltare il nemico senza che esso possa sottrarsi all’attacco. Non può prendere un abbaglio o cadere in errore. La Zarina decide di muoversi e rompere la sfera solenne, quasi sacrale, che la circonda. L’attrice mira un punto preciso dello spazio scenico. Vuole raggiungerlo. Discesa dalla pedana. Lo spostamento dal centro della scena si trasforma in un arrancare lungo l’intero perimetro. La Zarina barcolla penosamente, non si regge in piedi, si trascina e continua a vagare affannosamente senza una meta. All’affanno e al vacillamento si aggiungono orridi conati di vomito, piccole vibrazioni della voce e sussulti rovesciati in punti sparsi dello spazio da parte di un corpo che pare essere abitato da una serpe, da un veleno. Scorre lenta e inesorabile per brevi attimi la rappresentazione nuda e cruda del potere, divenuto corrotto, disgraziato, meschino, indomabile e simile a un morbo. Luce più intensa sul palco. Entra Licia, la segreteria del sindaco, pronta a porgere il tricolore a Zarina che, immemore di ciò che è avvenuto poco prima, si rassetta. Battuta.) Damiano Pellegrino    ]]>

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