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Politiche dei miraggi. Su “Sparizioni” di Muta Imago

di Francesco Brusa

Arrivano davvero come un proiettile in una sostanza densa e gelatinosa, come un’esplosione a detonazione ritardata. Le sette puntate di Sparizioni dei Muta Imago, andate in onda per il progetto di Teatri di Roma “Radio India”, partono da un assunto talmente semplice da sembrare quasi irriverente: in un regime di isolamento sociale, di impossibilità cioè di esplorare lo spazio all’esterno, perché non esplorare invece, e per davvero, lo spazio interiore, i meandri del sé?
Riccardo Fazi e Claudia Sorace non ci parlando in alcun modo della pandemia in corso, eppure danno l’impressione di farlo in tutto e per tutto dalla pandemia, vale a dire da una condizione di incredulità e sospensione, di distorsione delle consuete logiche finzionali. «Dove siamo spariti?», si chiede il duo romano e rivolge la domanda agli ospiti delle varie puntate (la performer e danzatrice Sara Leghissa, i compositori Alvin Curran e Filippo Perocco, la danzatrice Annamaria Ajmone, l’organizzatrice e giornalista Paola Granato, l’artista John Cascone, il divulgatore scientifico già defunto Carl Sagan, gli artisti Francesca Grilli e Benno Steinegger), estendendola poi metaforicamente all’umanità, raccontando i deserti americani, agli uomini, evocando nel prosieguo di un viaggio con una traiettoria ben precisa i “vip” che scelgono di eclissarsi sulle coste di Malibù, e infine all’uomo in quanto tale, inabissandosi nel sogno psichedelico e allucinato di una possibile scomparsa dell’io tra Timothy Leary, Aldous Huxley e l’istituto Esalen nella regione californiana del Big Sur. I Muta Imago si concentrano sul nulla, sul vuoto, non tanto sull’annientamento del genere umano quanto sulla sua – stramba e forse temporanea – dissipazione (proprio come il titolo del romanzo di culto di Guido Morselli Dissipatio H.G., che ha peraltro ispirato il radiodramma a puntate La quarantena del signor Zut di Michele Bandini). Il che, almeno da una certa prospettiva, è tutto quello che ci è stato dato di “vedere” in questi giorni: le città improvvisamente disertate, l’eco di una presenza umana che però non ha alcun corrispettivo fisico e tangibile. Così, è come se anche la teatralità (che parte pur sempre dal quotidiano, insegna Goffman), e il teatro con essa, fossero improvvisamente “evaporati”, scivolati via dal nostro orizzonte di possibilità spettatoriale. Similmente, Sparizioni assomiglia allora a un’evaporazione della scena e dei suoi linguaggi: non un radiodramma compiuto e narrativo, non un’installazione sonora che trova nel mezzo audio la sua ispirazione primaria, ma quasi l’evocazione in negativo del teatro (che rimane un evento impossibile). Un esorcismo in qualche modo furente, ma del tutto disincantato.

Si confronti infatti il lavoro dei Muta Imago per “Radio India” con il precedente Antologia di S. (diventato poi anche installazione al Festival di Santarcangelo): se quest’ultimo procedeva attorno all’ossessione del tentativo di dare concretezza a una voce, a cercare di fatto il corpo cui la registrazione di quella voce apparteneva, Sparizioni agisce nel solco del distacco, di una lontananza irriducibile. Addirittura, uno dei principi più basilari dell’ascolto sembra essere negato: non si instaura alcun rapporto di complicità fra attore e spettatore, non c’è intimità possibile o raccoglimento. Al contrario, è come se suoni e parole di Riccardo Fazi e Claudia Sorace e dei loro ospiti arrivassero alle nostre spalle, non da un’altra dimensione ma da una prospettiva altra, opposta ma contigua alla nostra. Un esempio su tutti: alla fine della prima puntata, Sara Leghissa “si agisce in terza persona”, immaginando la propria cavalcata surreale, da cartone animato, in una città svuotata e ucronica, senza però dare mai vera e propria sostanza a questo racconto. Lo attraversa come un bozzetto, come fossero “appuntacci” di trama e intreccio, evitando però di mettere davvero in scena ciò che racconta. C’è, cioè, in Sparizioni uno slittamento di fondo: è un viaggio che sembra a tratti ideato per la scena teatrale, in tutta la sua fisicità, ma è come se gli avessero improvvisamente levato i corpi. Rimane così uno scheletro, un algoritmo narrativo che gira a vuoto, ma che comunque ci attrae e ci risucchia nel suo meccanismo di funzionamento aleatorio.

«Non vi è più nessuno di fronte. Un tempo ciò sarebbe stato considerato come la fine ideale del soggetto – appropriazione e disposizioni totali di se stessi. Oggi ci si rende conto che l’alienazione ci proteggeva da qualcosa di peggio, dalla perdita definitiva dell’altro, dall’espropriazione dell’altro da parte del medesimo»

(Jean Baudrillard, Il delitto perfetto)

Riccardo Fazi e Claudia Sorace iniziano il loro viaggio fra il deserto di Sonora e la Death Valley in California, in una sorta di sospensione esistenziale che è anche scacco della visione. Che cosa si osserva, infatti, in un’area desertica? Come raccontarla? I deserti sono “eventi” in tutto e per tutto non-rapportabili, dove trionfa il medesimo e dove – non a caso, come ricordano gli stessi Muta Imago durante le puntate – il filosofo Jean Baudrillard ha trovato la rappresentazione perfetta delle nostre società, in cui il reale scompare a favore dell’immagine e in cui non c’è più spazio per alcuna negatività. Il duo si confronta allora con le esplorazioni artistiche e speculative che hanno provato a fare i conti con una tale assenza di senso: Baudrillard, appunto, l’Antonioni di Zabriskie Point, la controcultura americana degli anni ‘60… Riccardo Fazi e Claudia Sorace costruiscono una sorta di “poetica del dopo”, una dimensione rappresentativa e narrativa in cui tutto è già avvenuto, o meglio, nulla sembra dover realmente accadere. Le loro voci sono calme e assertive, nessuna recitazione ma quasi un resoconto che però è anche racconto sentito, analisi introspettiva. Solo che tutto si produce a distanza, “da remoto”: descrizioni dei paesaggi, aneddotica su personaggi storici legati ai luoghi, inserti letterari, musicali e filmici, ricordi d’infanzia “insistono” tutti sulla medesima linea temporale, mescolandosi. Noi ascoltiamo a occhi socchiusi, tendendo l’orecchio per meglio percepire questi segnali sonori, bagliori dallo spazio (desertico, lunare, della coscienza, etc…).

In un’avanzata distesa e tutto sommato molto coerente, sia dal punto di vista geografico che concettuale, i Muta Imago si spostano poi sulle coste della regione, facendo immergendosi a 3000 metri di profondità nell’Oceano Pacifico e inseguendo poi l’isolamento sociale volontario e “dorato” di tante celebrità statunitensi a Malibù, recuperando la morte di Aldous Huxley attraverso i racconti che ne fece la moglie Laura, esplorando infine quel che resta dell’Istituto Esalen e in generale quel che resta della cultura psichedelica statunitense degli anni ‘60. Si tratta, per il duo teatrale, di rinvenire concezioni ed “eresie” che hanno provato a pensare il sé, anzi l’inconscio, come campo di battaglia politico e sociale, la psiche profonda dell’individuo come architrave e origine della vita in comune. Descrivendo questa cultura come un liberatorio e ambizioso “complotto pagano”, il sociologo spagnolo Antonio Escohotado scrive nel suo Storia generale delle droghe:

«[Il “complotto”] non può essere separato da una generale riflessione filosofica sulle società industriali avanzate, e da uno sforzo per influenzare l’evoluzione di queste ultime. Si trattò di un discorso di stampo farmacologico, ma allo stesso tempo politico e culturale nel senso più ampio del termine. La sua pretesa non era di far politica affinché le cose continuassero più o meno nello stesso modo di sempre, sostituendo alcuni governanti con altri, ma nel senso di quello che Nietzsche chiamerà Gran Politica (Grosse Politik), per contribuire al fatto che l’uomo – l’abitante della civiltà tecnologica, con le sue glorie e le sue miserie – potesse assicurarsi un grado di autonomia e di distanza critica di fronte all’ambiente concreto in cui gli toccava vivere. L’aiuto di natura chimica che offriva non voleva dunque essere un fine in se stesso, bensì un gradino d’appoggio per conservare libertà civili e un accesso a forme di godimento che erano perseguite o minacciate dallo sviluppo della civiltà».

Antonio Escohotado, Storia generale delle droghe

Si tratta in qualche modo della “parte centrale” di Sparizioni, dove la narrazione – per quanto concesso dal suo andamento prevalentemente orizzontale – pare davvero inabissarsi nelle vie tortuose dell’inconscio e delle sue strutture recondite. Riccardo Fazi e Claudia Sorace evocano un pensiero dissidente che ha tentato di legare nel maniera più stretta possibile l’evoluzione individuale con il progresso collettivo, l’esplorazione del sé con la conquista di nuove libertà politiche. Eppure, lo fanno a partire dalle macerie di un discorso siffatto: l’istituto Esalen da cui parlano, teatro di alcune fra le più ardite sperimentazioni della “psiconautica”, è oggi forse solo l’ombra di pratiche realmente progressiste e tese a un’emancipazione comune, bensì ormai solamente un rifugio, un riparo, una spelonca autoreferenziale votata all’aumento di benessere e comfort (al pari delle ville dei ricchi di Malibù, sembra suggerire sottilmente Sparizioni). Riccardo Fazi e Claudia Sorace decidono allora di intrecciare in un modo ancora più profondo spazio esterno e interno, temporalità rivolta a un passato ancestrale così come proiettata in un futuro quasi inimmaginabile: dalle coste californiane si scende a capofitto nella psiche stessa dei due autori, nei loro ricordi di infanzia, che però sono anche esplorazione del cosmo oltre i confini del nostro sistema solare. Pozzi, cunicoli e vallate mentali fanno il paio con i crateri lunari e con i contenitori di senno immaginati dall’Ariosto, mentre il racconto di una missione avveniristica quale il viaggio della sonda Voyager si alterna a riflessioni su come dovesse apparire l’agro romano precedentemente alla comparsa dell’homo sapiens. Ed è proprio qui che termina invece, come se non fosse in effetti mai iniziato, il viaggio dei Muta Imago: nel «quadrante sud-est della città di Roma», a casa. Una casa che è sempre più grotta, antro in cui immaginare – come hanno fatto i nostri antenati – un nuovo senso possibile dell’essere uomo.

Sparizioni, nella parte finale del suo discorso, approda dunque al presente. Senza mai nominarlo direttamente, senza indicare mai in maniera esplicita le condizioni di emergenza sanitaria e sociale da cui comunque il percorso dei Muta Imago sembra prendere abbrivio. È come un’uscita dal tunnel che però si spalanca su una nuova voragine. Qualcosa che, peraltro, assomiglia anche alla parabola tracciata dal “complotto pagano” della controcultura psichedelica, così descritto dal giornalista e scrittore Hunter S. Thompson nel suo Paura e disgusto a Las Vegas (evocato anche dagli stessi Fazi e Sorace):

«Finita l’energia che pulsava negli anni Sessanta. Le sostanze stimolanti sono cadute in disgrazia. È stata questa la falla fatale nel viaggio di Tim Leary. Ha bombardato l’America con la sua ‘espansione di coscienza’ senza minimamente preoccuparsi della realtà sinistra e rapace che attendeva quelli che lo avrebbero preso troppo sul serio. […] Ma la loro sconfitta e il loro fallimento è l’illusione circa un intero stile di vita che lui stesso aveva contribuito a creare… una generazione di sciancati permanenti, di cercatori falliti, che non è mai riuscita a capire l’originaria menzogna che la cultura lisergica ha ereditato dai vecchi mistici: la disperata supposizione che qualcuno – o perlomeno qualche forza – custodisse la Luce alla fine del tunnel».

Hunter S. Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas

La liberazione delle pulsioni e delle energie collettive reca sempre con sé qualcosa di ambiguo, l’esplorazione sconfinata degli spazi interiori ed esteriori pare avere spesso un contrappasso sinistro. C’è, cioè, quasi una spirale negativa che sembra intrecciare la fine del sogno dell’espansione di coscienza della controcultura psichedelica con il trionfo dell’esplorazione spaziale segnato dall’allunaggio del ‘69. Come se la colonizzazione e la corsa al “cosmo” avessero segnato anche la chiusura dei mondi inconsci e di pensiero generati dalle interiorità umane o, perlomeno, avessero reso maggiormente manifesta la loro natura “illusoria”. Sparizioni si sviluppa dentro queste contraddizioni, giocando con la forma esclusivamente sonora per creare veri e propri “miraggi”, barlumi di immagine. Restituendoci forse, e nonostante l’afflato di scoperto e di dismisura, una vertigine che è anche senso del limite: sul finire della sesta puntata, Riccardo Fazi descrive l’ultima fotografia scattata dalla sonda Voyager quando si trovava a sei miliardi di chilometri di distanza dal nostro pianeta, intitolata successivamente Pale Blu Dot (“pallido puntino blu”) e in cui la Terra non è appunto nient’altro che un puntino infinitesimale in mezzo all’oscurità dello spazio. Qualcosa che rassomiglia al nostro presente, alla casa, alle nostre coscienze, chissà anche al senso del teatro di qui a venire: un puntino infinitesimale da cui – ciascuno e insieme – ricostruire immagine.

Qui il link di Spreaker per ascoltare Sparizioni

Foto di copertina: “Pale Blu Dot”

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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