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Pippo Delbono o l'umanità del teatro

di Altre Velocità

Immaginate di essere alla prima di un’opera teatrale, un’opera lirica, per esempio.
Facciamo che sia un dramma e che sia uno di quelli che si muovono intorno alle note del grande compositore Giuseppe Verdi. La gente entra in sala, si siede, accomoda i propri cappotti, e, data un’occhiata all’orologio, inizia ad attendere che il brusio che invade il locale svanisca fino a raggiungere il silenzio del sipario che sale.
Gli artisti sono lì, sul palco, fermi e in posa, voi in attesa, mentre loro pronti a iniziare. Sembra un quadretto familiare. Fino a che, a un certo punto, succede qualcosa. Una crisi, si dice.
E nella crisi, immaginate ora, l’orchestra sparire, immaginate che a farlo, siano i cantanti, siano il coro e il corpo di ballo. Immaginate che siano, uno ad uno, allo stesso modo, a sparire. È un naufragio, dice Pippo Delbono. È un naufragio. E sul tema di qualcosa che scompare si apre Dopo la Battaglia, pièce teatrale andata per la prima volta in scena in un maggio di nove anni fa, e che è attualmente disponibile sul sito della fondazione teatrale Ert, che propone altri tre spettacoli del regista visibili fino alla fine del mese.
Orchidee, Vangelo, Questo buio feroce, Dopo la battaglia sono, di certo, gli spettacoli che segnano un legame di lunga durata con la fondazione, ma rappresentano soprattutto dei tasselli fondamentali della poetica delboniana, in grado di raccontare un teatro fatto di una spiritualità così profonda da provenire fin dalle viscere dello stomaco.

È anche attraverso la musica, il canto e il video, che la narrazione di Delbono prende forma in quello che sembra avere tutta l’aria di un viaggio che è sia personale che collettivo.
La voce intensa ed esausta del regista ci conduce lungo tutto il tragitto, come una guida che osserva, e racconta, e ci accompagna fino alla sua dipartita.
Diverse sono le modulazioni vocali che sembrano dar voce ad un grido strozzato, come se una forza apparentemente dormiente fosse ostinatamente contraria ad arrendersi. Impossibile sarebbe non soffermarsi sul linguaggio di un teatro che presta al corpo un’attenzione particolare come quello di Delbono, per cui la fisicità e la gestualità degli attori sembrano un organo che dilatandosi e contraendosi, esprime talvolta dolore, talvolta liberazione. Non è, infatti, un caso che Pippo, vista per la prima volta la Tanztheater, la compagnia che rivoluzionò per sempre la storia del balletto, ne fu colpito a tal punto che decise che, in qualche modo, avrebbe dovuto farne parte. Era completamente a digiuno da qualsiasi studio di danza tradizionale ma erano gli anni Ottanta e aveva già conosciuto Pepe Robledo, l’attore argentino che usava il teatro per opporsi alla dittatura nel suo paese. Tutt’oggi, a tenere insieme i due è un lavoro che perdura nel tempo. Ma, quella volta, fu per farsi notare dalla coreografa celebre in tutto il mondo, che il nostro regista, scrisse e interpretò con l’amico uno dei suoi primi lavori teatrali.

Ad ogni modo, pensiamoci bene. Prima dicevamo che in La battaglia il regista ci aveva detto che dovevamo togliere tutto, che ogni cosa doveva scomparire, e così è stato. Noi abbiamo tolto gli attori, tolto gli orchestranti. Ma cos’è, dunque, ciò che adesso è rimasto?

Ciò che è rimasto è l’essenza: «Il teatro è un incontro tra esseri umani». Così, in uno degli spettacoli, cita Ingrid Bergman, «Tutto il resto non conta». Non conta un mondo di luci artificiali, un mondo ad aria condizionata. Non un mondo dove i vivi sono morti, mentre imparano a ripetersi di essere felici. Non un mondo di plastica in cui è meglio aspettarsi il rimbalzo, quando il colpo non ti ha ferito, un mondo fatto di un insanabile senso di vuoto e di un irrimediabile desiderio di vita.
«Questo mondo non mi piace, direi io. A volte mi fa schifo», dice Pippo.
E forse per questo, crea un mondo tutto suo, un luogo dove poter stare, dove poter sognare, dove è solo una cosa quella che conta, quella che resta, ed è quella di un’umanità dove siano i folli a regnare, dove ci siano i matti, i mai banali, i pazzi di vita, quelli che sembrano essere gli unici ad avere ancora un gioco da svelare.
L’umanità di Delbono sta nella follia di una madre cattolica, che ha fede nella Vergine madre, che crede in un Dio che non è il Dio del figlio e che, a suo modo, riesce sempre ad amarlo. È la follia dell’amico Bobò che ad ogni cambio d’abito, cambia pelle, e si trasforma. Di un amico, che dopo quarantacinque anni in manicomio da sordomuto, analfabeta e microcefalo, quale è, seppur cammini benissimo, ogni tanto, si fa portare in giro con la carrozzella. È la follia di qualcuno che se lo è portato via, Bobò, da quel manicomio. Lo ha portato via e lo ha portato con sé, si è lasciato salvare e si sono salvati insieme per sempre. È la follia di uno scrittore che sta morendo, di un uomo che vacilla, che è in acque torbide, in acque tormentate, ed è solo lì che inizia a vedere la pace attorno a sé. C’è, inoltre, la follia di Giovanni, un ex brigatista che gli ricorda la madre. Quella di un visionario, che ha creduto nella lotta armata, la follia di un uomo che per un ideale ha trovato, così, ancora una volta, la follia del “carcerato di lunga durata”, il “carcerato per sempre”, che sogna la libertà, e la sogna così forte da conoscerla più di quanto chiunque abbia mai potuto farlo.
Ma nel teatro di Delbono la linea di confine tra una cosa e l’altra non è così netta, né è così nitida la linea di contorno. Tutto si stende e si confonde come un unico piano sequenza di un luogo in cui anche la contraddizione trova il proprio perché. Un luogo per cui, tra frequenze e dissonanze, un verde giardino nasce come ricordo di infanzia, per fiorire tra le pagine di uno scrittore che racconta del suo albero dei ciliegi. Un verde giardino che, facilmente lottizzabile, si riflette in un sogno per finire negli occhi di Pina Bausch.
Di Pina e dei suoi danzatori che molti anni fa nello spettacolo Arien ballavano e si muovevano in un acquitrino. Sembrava un universo liquido fatto di esuberanza e di assenza. Delbono, invece, traccia dei segni. Sono linee taglienti che illuminano e bucano il sipario. Sono segni che, in qualche modo, sembrano anche loro sommersi della stessa acqua, ma un’acqua putrida e stagnante. Un’acqua che è primitiva e sa di morte, un’acqua che risiede sulle nostre rive ed è l’acqua di un mare nostro che non è nei cieli, un mare nostro che abbraccia i confini dell’isola e del mondo, un mare che troviamo nei nostri fondali, in un luogo dove, forse, ancora si conserva una fede, che poi, è come è una speranza proiettata all’infinito.

Marta Pezzucchi

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