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Per un teatro verticale e collettivo. Conversazione con Claudio Longhi 

di Lorenzo Donati

Nel vasto palcoscenico del Teatro Storchi di Modena, una combriccola di attori gioca a fare l’Europa. Senza vestire i panni di personaggi, ma neppure interpretando se stessi, nove fra attori e attrici sono alle prese con dei “giochi senza frontiere” a tema europeo, con alcune “prove da superare” a cui corrispondono altrettante parti dello spettacolo. Nove prove, per la precisione, che alternano momenti di divulgazione ricchi di dati e racconti (come l’elenco di guerre del continente, impressionante e ripetitiva teoria di ricorrenze tragiche) a discese nella leggerezza, come la prova sulla cucina europea: due attori una canzoncina e una chitarra come fossimo nel mezzo di un numero di una rivista. Molti sono i temi toccati: i bandi, le vie di comunicazione, le musiche, la lingua, lo sport, in uno spazio teatrale volutamente costruito con materiali scenografici non eccessivamente elaborati, per rendere il viaggio dello spettacolo mutevole come le sue stesse scene (la versione modenese, andata in scena nel maggio 2013, durava quattro ore). Reti da pallavolo segnalano divisioni e confini, contenitori metallici ricolmi di carta rammentano la povertà da cui proveniamo, ma ci sono anche gli schermi delle nostre televisioni, i sofà dei nostri interni borghesi, le valige delle nostre partenze. Sul palco sono invitati per una sera giovani imprenditori a discutere del continente dal loro punto di vista, mentre a ogni replica c’è una intera squadra di rugby che chiude il lavoro inscenando un match fra Europa e resto del mondo.
Questo ratto d’Europa è una sorta di teatro comunitario espanso che punta alla forma “chiusa” del teatro tradizionale, provando a tenere insieme l’istanza della partecipazione con quella di chi vuole esercitare la semplice osservazione. Grande è stata la mole di laboratori con i quali si è letteralmente costruito il testo dello spettacolo: con associazioni culturali cittadine, con studenti e anziani, con una galassia di associazioni che insieme agli attori e al regista hanno discusso della loro idea di Europa nei mesi precedenti al debutto (fra i molti, sono stati realizzati laboratori sulle musiche, sulle scritture letterarie, sulle migrazioni, sulle crisi, sulle fiabe ecc., ospitati in camere del lavoro, in circoli Arci, in scuole e teatri). Così operando, mutano non poco le concezioni tradizionali di attore e regista, soprattutto se pensiamo a come in basso sono cadute oggi all’interno dei teatri stabili. Non dunque esecutori più o meno creativi di idee altrui – gli attori –  né figure demiurgiche che diffondono nozioni critiche su testi del passato – i registi –  ma entrambi autori di una visione della scena che si sostanzia nell’incontro con la comunità in cui nasce lo spettacolo, attraverso momenti di incontro di varia natura. Prendendosi carico di tutti i rischi di “orizzontalità” che tale procedere porta con sé, come si evinceva d’altronde in uno spettacolo esageratamente lungo, pienissimo di nozioni, al cui interno convivevano registri recitativi fra loro distanti. In sostanza, ci pare che dal ratto d’Europa emerga una idea di complessità che potrebbe contribuire a rinnovare l’aria di molto teatro nostrano, basata su un presupposto semplice e difficilissimo da mettere in pratica: non si dà teatro credibile che non sia fondato sul tentativo di mettere il naso fuori, per tentare di capire cosa c’è varcando la soglia dei teatri. Ma a differenza di alcune opzioni del passato, si esce restando convinti della profonda necessità di “tornare dentro”, per tentare di salire verso i vertici dell’arte con un bagaglio di esperienze che giocoforza puntano a creare i contorni di una nuova collettività. Si esce con la convinzione profonda che l’arte debba avere a che fare con la vertigine, con quella dimensione extraquotidiana che richiede impegno individuale, responsabilità dello sguardo, investimento della visione. Idee che rielaborano aggiornandole alla società di oggi certe esperienze di animazione teatrale degli anni passati, trovando però un’autonomia di percorso di mezzi e di strumenti che rende il ratto del tutto originale, lasciando a distanza il teatro cosiddetto sociale o terapeutico, così come la moda “relazionale” degli ultimi anni.

Anche per “festeggiare” il conferimento del Premio speciale Ubu al progetto (dicembre 2013), abbiamo incontrato Claudio Longhi, figura che già di per sé rappresenta un’eccezione nel panorama attuale. Non solo regista ma anche docente universitario, saggista, critico con alle spalle alcune importanti pubblicazioni e curatele (su tutte, ricordiamo quella recente dedicata a Marisa Fabbri). Il ratto d’Europa tornerà a calcare le scene nell’aprile 2014 presso il Teatro di Roma, in una nuova versione rimessa in scena e costruita con percorsi laboratoriali di incontro e di spettacolo pensati per la Capitale, in parte già realizzati o in via di realizzazione nel momento in cui scriviamo.

Claudio Longhi, partirei chiedendoti di raccontarci il percorso che ha portato alla nascita dello spettacolo.

Abbiamo debuttato nel maggio 2013, quindi si è trattato di un percorso estremamente lungo, iniziato più di un anno prima attraverso contatti con molte realtà del territorio modenese. Nell’ottobre 2012 abbiamo presentato alla città il percorso, cominciando dunque a orientare un immaginario, partendo da alcune tracce di lavoro legate all’Europa che avevo in testa e che mi portavo dietro da alcuni corsi che avevo tenuto all’Università. Durante due corsi di laurea magistrali – tenuti uno a Bologna e uno a Venezia – e in uno triennale – a Venezia – ero partito fornendo un canone di letture iniziale e chiedendo ai ragazzi di progettare uno spettacolo sull’identità europea. Li lasciavo molti liberi, attendevo le loro suggestioni. Con tale bagaglio di esperienze sono arrivato dunque alla prima fase del lavoro modenese. Nell’affrontare la città abbiamo agito sulla base di un principio di assolta trasversalità, cercando di andare a toccare il maggior numero di interlocutori possibili. Ovviamente un occhio di riguardo è stato riservato alle realtà che per la natura stessa delle loro attività potessero essere particolarmente sensibili al tema dell’Europa. Ma questa particolare attenzione all’Europa non è stata un vaglio discriminante: tutt’altro! C’è stato posto per tutti! La griglia di lavoro si è così gradualmente riempita di contenuti modenesi.

Nello spettacolo toccate temi quali le arterie di comunicazione del continente, l’economia, l’identità letteraria, i miti e molto altro. In che modo si è costruito il nocciolo della rappresentazione finale?

Un primo forte imprinting è venuto dalle strade: siamo partiti dalla rete viaria come strumento per intrecciare comunicazioni, sia da un punto di vista commerciale che antropologico. Quando abbiamo cominciato, in città era stata rinvenuta da non molto la strada Novi Sad, punto di congiungimento fra la Via Emilia e il Nord Europa, scoperta che rendeva ancora più chiaro come mai Modena, in età romana, fosse importante anche più di Bologna. In quei mesi abbiamo iniziato un parallelo lavoro di orientamento con gli attori. Avevo consegnato loro sei libri, gli stessi che avevo messo in programma per il corso universitario di Bologna, e a ognuno avevo chiesto di mettere in circolazione almeno altri tre testi, scambiandoli con il gruppo. Così, nell’agosto 2012, abbiamo costruito una prima nutrita bibliografia, anche con l’aiuto di alcuni studenti del corso universitario. Quella che sto descrivendo è una sorta di fase preparatoria che si è intrecciata con un parallelo percorso nell’ambito di Scena Solidale, il progetto costruito da Emilia Romagna Teatro per le popolazioni colpite dal terremoto del 2012. Lavoravamo a Mirandola conducendo un laboratorio con gli anziani, al quale erano presenti anche i miei studenti dell’Università, alcuni attori del Ratto e il mio assistente alla regia. Si è trattato di una piccola palestra per iniziare a fare i conti con un lavoro in collettività, con la presenza di elementi esterni come gli studenti universitari, una possibilità che gli attori stessi hanno avuto per “testarsi”, per capire come approcciarsi a un teatro che non fosse “vengo e provo”, ma che ci chiedeva di aprirci all’esterno. Tutte questi percorsi sono confluiti nella cosiddetta “settimana di ottobre”, nella quale abbiamo presentato il percorso alla città di Modena coinvolgendo tantissime persone.

Uno dei nodi che vorrei sollevare è già emerso, e risiede precisamente in quella tensione ad aprirsi che racconti. Tensione molto più facile da sbandierare che da mettere realmente in pratica. Voi come ci siete riusciti? E da dove proviene?

Qualche tempo fa avevo letto un’intervista a Cristoph Marthaler, rilasciata quando era artista associato al Festival di Avignone. Marthaler racconta il suo metodo di lavoro, e afferma che durante i periodi di prove ami pochissimo stare in teatro, preferendo la strada. Prosegue affermando che le sue prove, per una lunga parte iniziale, consistono nel cantare, perché cantando si impara a stare insieme. Mi ha sempre colpito il concetto del non stare in teatro quando si prova, soprattutto per il tipo di concentrazione che tale atto richiede. Solitamente intendiamo la concentrazione come un fatto implosivo: ci si chiude in se stessi e si cerca di andare in fondo. Marthaler evoca al contrario una concentrazione totalmente estroflessa; così, la mia idea, era quella di mettere in pratica un’attenzione con le sonde rivolte fuori e non dentro. Finora io avevo sempre lavorato chiudendo, magari attraverso aperture laboratoriali strutturali (nelle scuole, per esempio), ma anche in questi casi la genesi del lavoro era stata sempre interna al gruppo. Pensando al Ratto mi sono reso conto di quanto fosse necessario buttarci fuori: non a caso, il primo movimento del progetto ha previsto la creazione di una settimana di eventi abbastanza schizofrenica, fatta di letture in biblioteca, giochi per le strade, biciclettate e spettacoli. Eppure, proprio in tale prima fase, sono emerse alcune indicazioni che si sarebbero rivelate molto importanti anche a livello teatrale.

Ci fai qualche esempio?

Per esempio abbiamo potuto testare scenicamente le parole di Hans Magnus Enzensberger, di Luigi Einaudi, di George Steiner. In questa settimana ci siamo accorti che Una certa idea di Europa di Steiner sarebbe diventato un filo conduttore dello spettacolo, mentre abbiamo capito che i testi di Einaudi erano teatralmente più inerti. Dopo una prima fase di orientamento, ne è seguita dunque una seconda fondamentale per testare il terreno, per comprendere la natura dei tanti interlocutori che incontravamo nei laboratori e non solo, in modo che divenisse chiaro anche per noi chi si stesse mettendo davvero in gioco e chi invece preferisse mantenere un atteggiamento più formale e istituzionale. I laboratori sono dunque partiti a ottobre ed è subito nata una collaborazione con la Gazzetta di Modena. Sia su carta che on line, lo spazio sul giornale è stato un racconto del procedere del lavoro, un momento di autocoscienza ma anche un metodo concreto attraverso il quale è stato possibile misurarsi costantemente con i vari interlocutori. Nell’arco di un anno, al di là degli esiti estetici dello spettacolo, siamo riusciti a creare un vero gruppo di lavoro e di questo sono molto felice.
Per tornare alla concretezza del percorso, ogni attore, da quando sono partiti i laboratori è stato responsabile in diretta o “in differita” (quelli che vivevano lontano da Modena o erano impegnati nelle repliche de La resistibile ascesa di Arturo Ui). Si è creato quindi una sorta di presidio costante in città, gestito dagli attori e in collaborazione con i miei studenti universitari.



Cosa ha comportato per te lo spostamento della fase preparatoria “fuori”? Come sei riuscito a maneggiare la mole e la diversità dei materiali?

Sono partito da alcuni “appunti di drammaturgia” che ho iniziato a ricevere in dicembre, durante le vacanze di Natale 2012. Si trattava di diari: annotazioni sugli accadimenti dei laboratori, piccoli approfondimenti che mi aiutavano a capire in che modo i temi scelti stessero emergendo. Lino Guanciale è stato una sorta di coordinatore dei laboratori: oltre a fare da tramite con gli altri attori, organizzava gli appunti e me li passava in forma articolata, una volta che il materiale andava addensandosi nelle sue mani. Solo a questo punto i materiali arrivavano a me, che intervenivo fornendo suggerimenti e indicazioni a seconda dei casi.

Per capire meglio, ti faccio una domanda diretta. Le aree tematiche dello spettacolo, le “prove” (in sostanza l’architettura del lavoro) sono nate durante il processo o le avevate già in mente prima di cominciare?

Sia prima che durante. Alcune le avevamo scritte in precedenza ma poi non sono sopravvissute. Avevamo per esempio previsto una parte sulle fiabe europee (a partire dal Museo delle figurine di Modena) che non è stata inclusa nello spettacolo; in generale siamo partiti avendo a disposizione dei campi di ricerca e di lavoro molto ricchi, che via via sono arrivati a sintesi. L’architettura complessiva è dunque nata in base sia al lavoro dei laboratori, e al loro autonomo orientamento (come la sequenza del viaggio e del grand tour), sia seguendo nostre “imposizioni forzate”. C’era per esempio una decima prova che non è sopravvissuta e che avevamo chiamato Ma l’Europa è Atene o Gerusalemme? Oltre ad avere avuto una grande vicinanza con la comunità ebraica modenese, tale dicotomia è una delle tesi del libro di George Steiner. L’altro tema “imposto” ma poi accolto dalla città è stato quello dei bandi Ue.
Fin dall’inizio avevamo operato la scelta di non assumere posizioni ideologiche sull’identità europea, e questa scelta veniva comunicata a tutti i partecipanti sin dai primi incontri. Volevamo mantenere uno sguardo aperto, dialettico, evitando di affermare cosa l’Europa debba o non debba essere. Tale procedere deriva da una mia convinzione fonda: l’identità europea è di fatto meticcia. Su un piano etnografico, antropologico e di storia delle religioni siamo veramente un bric-à-brac, e senza cercare di riflettere la molteplicità non si rende giustizia alla complessità.

Una molteplicità che poi si è tradotta anche nella scelta dei testi, verso una concezione polifonica…

Esatto. Alcuni dei testi del lavoro sono di provenienza letteraria (Gli ultimi giorni dell’Umanitàdi Karl Kraus, Le città invisibili di Calvino, Anna Karenina, alcuni scritti di Pier Vittorio Tondelli) mentre altri sono nati direttamente dai laboratori, come la sequenza delle ricette europee o i racconti su Modena e la guerra. Ma al di là di questo, ciò che ritengo davvero importante è che la costruzione complessiva dello spettacolo sia il frutto di una contrattazione collettiva. Io sono arrivato all’inizio delle prove con un bagaglio teorico consistente, eppure molti spunti sono giunti dal lavoro, molti autori non li avevo proprio presi in considerazione. Alcuni spunti sono ovviamente miei diretti apporti, come l’idea di rimarcare la centralità dei conflitti armati nella storia del continente e la constatazione che la Seconda Guerra Mondiale abbia favorito la nascita di una certa idea di Unione Europea. Detto questo, ho tentato di lavorare facendo spesso “un passo indietro”.

In che senso il regista può fare un passo indietro?

Si tratta di avanzare proposte di lavoro per fare in modo che si trasformino in spunti di discussione, al limite in provocazioni, e non tanto in “visioni” registiche. Va detto che sono arrivato a questo spettacolo dopo riflessioni di lungo corso sull’indebolimento del ruolo della regia, processo che a mio avviso sta disegnando l’approdo a una dimensione “post-registica”. Nel 2011 avevo tenuto alcune lezioni di dottorato incentrate sul saggio di Luigi Squarzina Nascita apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante. Squarzina ne parla già all’inizio dei ’70, con il chiaro intento di mettere in crisi la cosiddetta regia magistrale («Muori pure tranquillo perché non sei indispensabile», scrive Squarzina a proposito del regista citando una frase di Brecht). Secondariamente, avevo imposto a tutti la lettura de Le parole e le cose di Foucault, in particolare pensando al passaggio in cui l’autore discute del sottrarsi dello scrittore dalla scrittura, della spersonalizzazione dell’esperienza della scrittura. Tali ragionamenti mi hanno condotto a ripensare il ruolo stesso del regista, ma anche dell’attore all’interno di una comunità.

Altro snodo cruciale. Il ruolo, la responsabilità dell’attore nel teatro di oggi.

I miei studi mi hanno sempre portato a occuparmi di storia della regia, ho cominciato tardi ad approfondire la storia dell’attore, anche grazie al rapporto con Siro Ferrone. Nonostante questo mi sono appassionato e ho iniziato a dedicarmi allo studio di attori di tradizioni diverse, da Eleonora Duse a Marisa Fabbri a Francesco Baseggio, attori e attrici che hanno poco o nulla in comune, a meno che non ci concentriamo sulla fruizione del pubblico. Conoscendo l’attore, gli spettatori ne giudicavano le prestazioni in rapporto alle variazioni che gli attori stessi mettevano in atto. All’inizio del ‘900, quando un attore arrivava in città, la relazione con gli spettatori si sostanziava nella proposta di diverse opere, e così il giudizio del pubblico si formava attraverso spettacoli differenti. Considerando poi che gli attori tornavano in città per anni, si poteva anche misurare la diversità di interpretazione nel tempo.


In altre parole, c’era un rapporto forte e tutto interno al teatro fra spettatore e attore, non solo fra pubblico e opere…

Esattamente. Oggi, a meno che non vi sia una notorietà televisiva, nella maggioranza dei casi l’attore è una figura neutra all’interno di un disegno che non gli appartiene. Per questo, nel Ratto mi interessava che gli attori acquistassero una loro riconoscibilità in città. Al di là del risultato positivo o negativo dello spettacolo, ho pensato che il progetto stesse prendendo la giusta direzione quando una notte, tornando a casa molto tardi dopo le prove, un ragazzo ha riconosciuto Simone Tangolo e si è messo a cantare uno dei jingle che usavamo su Facebook per promuovere lo spettacolo. La “riconoscibilità” era stata creata.

Da spettatore, posso aggiungere quanto fosse evidente di essere di fronte ad attori “partecipanti”: bastava osservarli quando nel finale accoglievano la squadra di Rugby, parteggiando per loro come fossero dei tifosi…

La squadra di Rugby arrivava alla fine dello spettacolo dopo tre ore e mezza, avevamo così chiesto loro di essere in teatro verso le 23 per prepararsi e cambiarsi. Stiamo parlando di persone che, nella migliore delle ipotesi, sono state a teatro una volta in vita loro. L’ultimo giorno di repliche modenesi sono salito in balconata anche per costruirmi un’ultima fotografia mentale prima di ricominciare a lavorare per il percorso romano. Quella sera, mi sono accorto che era seduto in balconata uno dei giocatori di Rugby che si era visto lo spettacolo per intero già tre volte. Si sono create dinamiche di questo tipo.

Anche dal punto di vista produttivo, l’intero percorso ha rappresentato probabilmente un esperimento, o forse una scommessa. Mi pare molto significativo anche l’apporto degli studenti universitari, che hanno avuto la possibilità di stare vicino a una produzione reale.

Effettivamente, gli attori sono stati sotto contratto solo durante la settimana di ottobre e durante i mesi di aprile e maggio 2013. Prima, il grosso del lavoro è stato fatto “perché ci credevamo”, se avessimo dovuto realizzarlo sostenendo i suoi costi reali non saremmo dovuti nemmeno partire. È stato dunque possibile grazie ai tanti che hanno contribuito volontariamente, tra questi i miei studenti universitari. Noto una certa scollatura fra il mondo del teatro “fatto” e gli studi universitari. Vedo saldature occasionali sulla base di interessi specifici, ma senza un rapporto organico come accade nel mondo anglosassone (penso a Richard Schechner, che il teatro lo fa e lo insegna, unendo i percorsi). Ho provato dunque ad andare in tale direzione: i ragazzi hanno partecipato a molti laboratori, hanno “fatto numero” quando si trattava di presentare i percorsi, e di diffonderli, sono insomma stati un “motore invisibile” di grande importanza.

Sentendoti parlare vengono in mente certe esperienze di teatro comunitario, ma anche una sorta di “opposto” come Carmelo Bene e il suo “venire meno”, quando parli di sottrazione. Vien da pensare alla polarità fra una tensione orizzontale, in cui conta molto l’esperienza di chi l’arte la fa, e una verticale, nella quale chi guarda è spinto a “salire”. Nel Ratto ho notato una dialettica fra i due poli molto rara, soprattutto al giorno d’oggi.

Il corso che sto tenendo quest’anno a Bologna per la Laurea Magistrale indaga il concetto di popolarità e studia il mito del Teatro Popolare, a mio avviso una chiave attraverso la quale rileggere tutta la storia del Teatro di Regia. Trovo estremamente affascinante una delle affermazioni di György Lukács in una delle pagine metodologiche introduttive della sua storia del Dramma Moderno, stesa all’inizio del secolo scorso (sull’onda dell’esplosione dei vari Intima Teatern, Théâtre Libre, Théâtre de l’Oeuvre… tutti quei piccoli cenacoli, cioè, che – in alcuni casi – diventeranno nuclei palpitanti dell’avanguardia). Lukács sostiene che parlare di piccolo teatro è una contraddizione in termini, perché il teatro nasce in Grecia a dimensione della città e se diventa piccolo rischia di abdicare alla sua funzione originaria. Si tratta di un problema cruciale teso a discutere il dna del teatro stesso, e in effetti nel corso del novecento il teatro si è inevitabilmente posto molte domande sul rapporto fra massa, comunità, élite. Altro problema fondamentale riguarda lo statuto dell’artista, con una riflessione che diventa inevitabilmente di ordine politico. Qui mi rifaccio a quel gigante che è Walter Benjamin col suo saggio sull’autore come produttore. Su tali delicati temi, come ho appena detto, si è dibattuto con costanza lungo tutto il novecento, probabilmente in maniera un po’ schizofrenica: da un verso si è insistito molto sul “popolare” preferendo una lettura politicizzata del termine. Dall’altro c’è stato il prevalere di una visione romantica, con al centro il mito dell’identità creatrice. Penso invece che l’orizzontalità e la verticalità dovrebbero riflettersi reciprocamente, senza escludersi. Mi viene in mente una pagina straordinaria di Alberto Savinio, la voce “dramma” della Nuova Enciclopedia scritta all’inizio degli anni ’40. Savinio scrive che il presente è fortemente indrammatico, orizzontale, mentre il teatro abbisogna di verticalità: se non c’è uno scontro fra uomo e Dio non ci può essere una vera forma teatrale.
Durante la creazione del Ratto ho dunque avuto ben presente il problema che poni, e ho provato a fare in modo che questa consapevolezza andasse ad incidere sulle varie fasi della creazione, sperimentando percorsi orizzontali e altri verticali, in cerca di un equilibrio. Dovessi rispondere alla luce della mia biografia, ti direi che il mio punto partenza è certamente “romantico”, e si riconosce nel mito dell’identità creatrice. Il mio percorso si divide però fra il maestro Ronconi e il maestro Sanguineti, personalità quest’ultima che ha dato una spallata in tutt’altra direzione. Anche per questo sono propenso a trovare un equilibrio fra le due dimensioni di cui stiamo parlando.

Senti di esserci riuscito, anche a livello “teorico”?

Come tutte le esperienze forti, il Ratto è un percorso che mi ha dato molto e mi ha frustrato allo stesso tempo, perché si tratta di mettere in discussione in sé e per sé la “sacralità” stessa del gesto teatrale. Io sono profondamente convinto che Savinio abbia ragione, e che sia necessario cercare una tensione fra uomo e Dio. Certamente il Ratto mi è servito per problematizzare, per capire quanto sia difficile prescindere da entrambe le dimensioni. Empiricamente, e nel mezzo del percorso, posso dire che lo spettacolo è una mediazione possibile fra le due istanze di cui discutiamo.

Dicevamo che il progetto rappresenta una scommessa anche dal punto di vista produttivo. Nasce dalla collaborazione fra due Stabili, e probabilmente li spinge a interrogarsi sulle loro funzioni…

Pensando alla situazione teatrale italiana non posso che notare l’esistenza di una realtà molto forte e che possiede caratteristiche proprie, al di là dei gusti personali. Sto parlando del cosiddetto “nuovo teatro”, l’unico a essere riconosciuto all’estero come “teatro italiano” (penso alla Socìetas, a Pippo Delbono, solo per fare i primi due nomi che mi vengono in mente). È una scena che possiede un proprio pubblico, una propria critica, un proprio sistema di distribuzione… in altre parole si tratta di una “società teatrale”, nonostante le fatiche enormi che sta attraversando tutta la cultura oggi. Vedo invece tutta un’altra fetta di teatro affidata ad alcuni grandi maestri e che in Italia sta perdendo spinta, sta implodendo, anche a causa della rescissione dei legami di dialogo fondo con il Nuovo Teatro. Mi sono accorto nel profondo di questa spaccatura quando ho lavorato su Marisa Fabbri, per esempio. Se non vogliamo che un certo mondo collassi dobbiamo creare un rimescolamento di carte, e così rifondare una società teatrale laddove ci sono solamente istituzioni che si stanno svuotando dall’interno. Il ratto d’Europa non è la soluzione dei problemi, ma almeno è un modo per porli, per discuterli, per invitare qualcuno più intelligente di noi a risolverli.

Come sta procedendo il percorso romano del Ratto, in vista del debutto nel maggio 2014?

A Roma i percorsi si sono attivati già a partire dai primi mesi del 2013, con alcuni laboratori che sono partiti e hanno mostrato degli esiti a giugno, coinvolgendo già circa quattrocento persone. L’idea generale è salvare l’impalcatura del progetto per farla rivivere attraverso esperienze nuove, dunque riorientandola alla luce del contesto romano. Quello che abbiamo proposto a Modena lo potremmo forse ripetere a Bologna, ma certamente non a Roma. A Modena abbiamo organizzato un flash-mob coinvolgendo “la città”, perché avere Piazza Mazzini piena crea la sensazione di stare abbracciando una città intera. Anche solo tale semplice concetto è impossibile da realizzare nella vastità della metropoli. Altro esempio: a Modena abbiamo organizzato Il giro d’Europa in ottanta giorni: economisti, intellettuali, artisti hanno raccontato una città europea attraverso la loro esperienza, o attraverso una lettura a loro cara. L’abbiamo organizzata alla Biblioteca Comunale della città, la Delfini. A Roma bisogna rivolgersi al Sistema delle Biblioteche. In questo momento si stanno costruendo le condizioni per creare relazioni con una realtà espansa, a partire dalla questione di fondo di cui abbiamo parlato insieme: cosa significa rimuovere l’identità autoriale in un contesto in cui non esiste un interlocutore, ma una costellazione di interlocutori?

Un’ultima domanda. Ora che hai alle spalle buona parte del cammino, cosa hai scoperto sull’Europa e sulla sua identità? Sia rispetto allo scavo “archeologico” di cui parli, sia pensando a un possibile futuro del continente….

L’acquisizione personale più forte riguarda un concetto che avevo già avuto modo di analizzare ma che non avevo del tutto compreso. Nella raccolta di articoli Sorte dell’Europa, scritti fra gli ultimi anni della guerra e primi anni dopo la liberazione dal fascismo, Alberto Savinio sostiene che l’Europa sia una penisola dell’Asia. Un’immagine che mi ha sempre affascinato enormemente ma che non ero mai riuscito a capire seriamente. Oggi ho compreso invece come l’Europa non possa che essere descritta attraverso i termini di una identità storica e non geografica: L’Africa si autodetermina geograficamente, l’Europa no, è per l’appunto una penisola dell’Asia, e tale consapevolezza cambia enormemente la percezione del tempo e dello spazio del nostro continente. A questa consapevolezza possiamo aggiungere la constatazione di George Steiner, quando sostiene che l’Europa sia camminabile, poiché tutto quello che esiste in Europa è stato plasmato dal piede umano. L’Europa non possiede deserti, né foreste come l’Amazzonia, è un prodotto storico e non geografico. Noi europei siamo le due Torri che vedo stando seduto qui a Bologna, non siamo un paesaggio. Ecco cosa ci consente di dire “siamo europei”.
Venendo al futuro, penso che l’orizzonte comunitario sia istituzionalmente imprescindibile. Per costruire un’identità comune, alcuni padri fondatori hanno avuto l’intuizione geniale di imporre un mercato comune, anche alla luce dei tanti nervi scoperti che vi erano nel secondo dopoguerra. Se quella era la strada obbligata, ricordiamoci in ogni caso che tale scelta ha evitato il prodursi di nuovi conflitti armati, se si eccettua la guerra dei Balcani. Nonostante tutto qualcosa l’abbiamo ottenuto, se non altro sul piano della civiltà, per esempio la nostra carta dei diritti è una delle più articolate e avanzate prodotte nel mondo contemporaneo. Resta ovviamente la sensazione di un progetto europeo che, in questi ultimi tempi, si è avvitato in una dimensione economicistica squassata dalla crisi. Proprio per questo, ritengo che sia giunto il momento di “fare il salto”: è necessario mettere da parte la tesi funzionalista che ha sinora prevalso per lasciare il passo a una visione federalista. In un incontro pubblico cui ho avuto modo di assistere negli ultimi mesi, mentre erano in pieno corso i nostri lavori modenesi, la dottoressa Francesca Ratti, segretario generale aggiunto del Parlamento Europeo, raccontava di come gli italiani percepiscano l’Europa come “Bruxelles”.  In questo modo di ragionare c’è un problema, perché l’Europa non è Bruxelles, l’Europa siamo noi. Il mostro buono di Bruxelles di H. M. Enzensberger discute la tesi secondo la quale i cittadini europei starebbero scegliendo la strada di una servitù volontaria al mostro burocratico europeo. Va quindi fatto uno sforzo per plasmare l’Europa, per fare sì che essa possa cambiare, evitando di equipararla a un Leviatano di cui siamo succubi. Con il Il ratto d’Europa non abbiamo certamente l’ambizione di fornire le chiavi per risolvere problemi di tale portata, semmai ci interessa porre dei problemi – e forse ‘porre dei problemi’ è già un primo passo per cominciare a risolverli.

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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