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“Ours” di Idan Sharabi. Ritmopatologia della vita quotidiana

di Francesco Brusa

Nell’ambito di Gender Bender Festival 2015 abbiamo visto Ours, del coreografo Idan Sharabi. Lo spettacolo è stato presentato all’Arena del Sole insieme a Please Me Please della corografa Liat Waysbort, un doppio sguardo sulla coreografia contemporanea di provenienza israeliana.

«La casa è semplicemente una coperta» dice la voce registrata che accompagna i movimenti di Idan Sharabi e Dor Mamalia, ma bastano pochi gesti sul palco per accorgersi che così semplice non è. La casa può essere nascondiglio, trappola, zona di comfort; la casa è attesa del ritorno e voragine che si apre dietro agli sguardi, tangibile bisogno del corpo che diventa toponomastica degli affetti. È comoda, certo, ma di una comodità che sembra sempre sul punto di incrinarsi. È stabile, ma tradisce l’affanno per la ricerca, di cui la stabilità non è che un risultato temporaneo. Ecco perché i danzatori di Ours fanno di tutto per metterci a nostro agio: l’inizio dello spettacolo assomiglia a un sussurro, con le luci che si spengono lentamente e i performer che girano rassicuranti fra il pubblico a stringere la mano di alcuni. «You’re welcome» ci dicono. Sorridono e fanno brevi cenni come invitandoci a entrare. Così, grazie anche al flusso di parole dello stesso Sharabi che crea una sorta di “corridoio sonoro”, scivoliamo in una proposta di condivisione intima, di affettuoso abbraccio cognitivo. Ma può il teatro essere veramente una casa per lo spettatore? Se la complicità richiesta dai danzatori consente di immedesimarci, non avvertiamo anche l’impulso a restare sulla soglia per godere di una visione più globale?

L’andamento dello spettacolo è semplice e lineare, eppure si stratifica velocemente in infiniti gradi di complessità. Saliti sul palco, Sharabi e Mamalia compongono una sorta di “monologo a due”: non un meccanismo preciso di corrispondenze ma sottile gioco di rimandi e allusioni gestuali. Ora insieme, ora distanti lungo le diagonali dello spazio scenico, i danzatori sono areciprocamente osservatori e osservati. È come se non cessassero di sviluppare il proprio personale discorso motorio, indipendente e al limite dell’autismo, per lasciarlo poi andare alla deriva, a volte scontrandosi altre amalgamandosi, o ancora chiusi in una teca di introspezione. Si costituisce così una particolare dialettica delle visione che, invece di abbattere la quarta parete come l’inizio poteva far supporre, ne costruisce addirittura una quinta, al cui centro troviamo un’ampia finestra virtuale ben rappresentata dal costante commento sonoro di parole registrate. Ecco allora che i punti di osservazione diventano veramente molteplici: è possibile guardare Sharabi e Mamalia singolarmente nel loro flusso di coscienza, è possibile concentrarsi su come l’uno reagisce ai movimenti dell’altro, oppure fare un passo indietro cercando di cogliere la scena nella sua interezza. In mezzo, la coreografia che diventa sempre più chiara: impercettibili espressioni del volto, scatti nervosi e gesti inconsulti, movimenti ponderati ed esplosioni di spontaneità sono una sorta di catalogo dei tic quotidiani che accompagnano la nostra vita e fanno da schermo alla nostra intimità. In questo senso, il duplice statuto di osservatore e osservato dei danzatori rappresenta un atto di estrema premurosità nei confronti del pubblico, poiché, replicando sul palco il ruolo di quest’ultimo, lo affianca rendendo più leggera la sua posizione esterna e oggettivizzante. È come se ciò che viene mostrato non si rivolgesse mai direttamente allo spettatore, offrendosi così non in quanto accusa (pur costituendola in potenza) ma in quanto gentile “ospitalità dello sguardo”.

La casa è semplicemente una coperta allora e, al contrario di quello che abbiamo detto all’inizio, è perfettamente semplice. Proprio qui c’è tutta la fragilità del concetto, nel suo rivelarsi struttura elementare al di là dello spessore del tessuto con cui è intrecciata. Per mezz’ora, durante la performance, ci siamo aggirati in un negozio di cristalli, scrutando in cerca di oggetti preziosi e solide fondamenta, quando è sulla trasparenza del cristallo stesso che Ours invita a concentrarsi. Dopo soffusi ma incessanti cambi di ritmo e sbalzi di tensione, dopo che la pulsione si è irradiata spasmodica in tutto il corpo (in tutti i corpi), fino a diventare quasi orgiastica, essa si ritrae sempre più sommessamente in un braccio, una mano, un dito, mentre i danzatori escono lateralmente di scena e chiudono la finestra sulla loro interiorità. La casa è semplicemente una coperta e va portata ogni giorno in spalla, col sorriso del buon anfitrione e l’inquieta insoddisfazione del viandante.

foto di Tami Weiss

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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