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“Operaio off n. 24”. Giuseppe Dozzo secondo Simone Toni 

di Altre Velocità

Pneumatici, tavole e catene si scorgono nella penombra sul palcoscenico. Simone Toni indossa i panni di Giuseppe Dozzo, mimetizzato nel grigio, infilato in una pila di gomme adagiate a terra, come in un sacco a pelo. Una voce off inizia a leggere la prima pagina del diario scritto dall’operaio Fiat tra il novembre ‘57 e il gennaio ‘59. Una raccolta di lucide annotazioni che riassume il suo ultimo travagliato anno, alle dipendenze dell’azienda torinese.
Operaio Off. n 243688 – Il diario di Giuseppe Dozzo, operaio Fiat 1957/58 è un progetto di Marco Benazzi diretto e interpretato da Simone Toni (regista e attore attivo nella compagnia Gli Incauti). L’impatto per lo spettatore è opprimente. Non solo il bianco e nero della scena che frena l’aspettativa, ma anche l’evidente rapporto di sudditanza che inizialmente si mostra sul palco tra l’attore e quella voce, la voce del padrone che schiaccia Toni costringendolo quasi all’immobilità. Il protagonista è solo nell’officina n.24 dello stabilimento, nella quale è stato trasferito per motivi ancora poco chiari. Una pioggia di guanti da lavoro restituisce il diario al suo protagonista: l’attore si scrolla di dosso gli pneumatici uno ad uno, si alza, indossa i guanti, e le righe delle sue memorie prendono corpo attraverso il ritmo del suo accento meridionale. Scopriamo allora che l’officina n.24 non è un luogo dove innamorarsi di un mestiere, come per 13 anni aveva fatto Dozzo riorganizzando con cura il magazzino dell’officina n.6. L’officina n.24 è il purgatorio dei non allineati, dei dissidenti, di quelli che non si accontentano dei doveri e pretendono diritti.

Da questo momento in avanti le date degli appunti vengono proiettate sullo sfondo dallo stesso attore tramite una diapositiva. L’effetto estrania lo spettatore, che vede Toni e il suo personaggio sdoppiarsi ma al tempo stesso dona profondità a una scena in cui gli oggetti che prima s’intravedevano ora diventano centrali nello sviluppo della drammaturgia. 
Man mano che le pagine del diario vengono sfogliate la fatica aumenta, sia per l’operaio che per l’attore. Apprendiamo che Giuseppe Dozzo è iscritto alla Fiom, convinto che il lavoro non sia un dono per il quale rendersi schiavi, ma sforzo, soddisfazione e crescita interiore. Inizia a scorrere sudore sul volto di Simone Toni che, come Charlot in Tempi Moderni, spazia davanti al pubblico in maniera goffa, a tratti buffa. Dalla prostrazione iniziale si passa a un moto quasi perpetuo: prima seduto sulle gomme, poi in piedi davanti al pubblico, poi di corsa da un lato all’altro, camminando sulle tavole. Intanto il suo monologo prosegue, tra giornate di lavoro estenuanti passate a spaccar legna, ferie estive e fugaci confronti con i propri compagni preoccupati di avere in tasca la tessera del sindacato giusto. Ma il protagonista non ha timori particolari, osserva ciò che lo circonda, si fa domande, ascolta e appunta. Nonostante festeggi appena trent’anni proprio nel ‘58, Dozzo non è solo un operaio esperto, ma anche un ex partigiano che al fronte ha imparato a confrontarsi con la paura.

La pièce entra nel vivo quando Toni sveste letteralmente la classica tuta da operaio per indossare giacca e camicia, segnando un confine tra sé e la sua penitenza. Anche lo scettico spettatore capisce che la battaglia di Dozzo è in una fase cruciale e l’aspettativa cresce. Ma l’azienda marca stretto il protagonista attraverso i suoi controllori, gli tende trappole alla ricerca di un pretesto per spedirlo dal purgatorio all’inferno del licenziamento. È ora più attento a dove mette i piedi mentre testimonia soprusi e allontanamenti che i suoi colleghi subiscono impotenti. Per tutti, l’anticamera della disoccupazione è l’officina n.24. Ma la sua fatica è verticale come la sua schiena. Dozzo si iscrive al partito comunista, partecipa a cortei e manifestazioni e si riconcilia con il suo spirito quando viene spostato temporaneamente tra gli addetti alla verniciatura delle Cinquecento. Il rosso della vernice fresca che Toni spande come un artista su un’automobilina è anche l’unico momento di colore della scena, una piccola speranza nel futuro di un uomo che corre ormai spedito incontro al suo destino. Così, dopo aver ricevuto due ammonimenti dall’azienda per essere stato sorpreso a “oziare”, l’operaio decide di reagire.

La dinamica della sua ascesa è ricostruita in maniera geniale da Simone Toni: con tre tavole infilate una dietro l’altra, attraverso altrettanti copertoni appesi alle catene e posizionati a diversa altezza, si ottiene un triangolo inclinato ove ciascuna gomma corrisponde ad un vertice. L’attore sale sulle tavole e lentamente raggiunge come un equilibrista la vetta, dove consuma la sua rivoluzione. È il tetto dell’officina n.24, ma è anche l’apice dello spettacolo. Si riode la voce off che questa volta si trasforma in eco, sovrastata e sconfitta da Dozzo che non ha più voglia di ascoltare e che, nonostante il rischio di cadere, affronta muso a muso la sua sentinella, con rabbia, senza mai perdere lucidità. Il pubblico è anch’esso in bilico, come Toni e Dozzo: tutti precari. È forse l’unico momento in cui Il trentenne di ieri si fonde con quello di oggi annullando di colpo la distanza temporale della memoria.
Dopo lo sfogo la discesa è lenta ma inesorabile, come la lettera di licenziamento successiva che diventa una liberazione per tutti: per Dozzo che vede davanti a sé nuovamente un futuro da scrivere, per Toni che legge attonito, seduto sulle tavole, e per il pubblico rimasto a lungo su quel tetto, patendo insieme all’operaio, entrambi alle prese con una domanda: «dove finisce il diritto al lavoro e dove comincia il dovere della dignità?». L’applauso finale non scioglie il dubbio ed è il giusto tributo a uno spettacolo che il dubbio lo crea, traducendo una storia lontana in occasione di lettura profonda dei nostri tempi.

di Davide Di Lascio

foto di Grazia Perilli

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