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Nuovi riti per nuovi generi. Il femminismo in scena a Contemporanea 2021

di Giuseppe Di Lorenzo

Trash me, crush me, beat me till I fall
I wanna be a victim for you all
Oh bondage, up yours
Oh bondage, no more!

– X-Ray Spex, Oh Bondage up Yours!, “Germfree Adolescents” (EMI, 1978)

Dopo il solito check di green pass, temperatura e ovviamente biglietto, mi ritrovo tra le mani un foglio A4 con una tracklist, come fossi a un concerto invece che al festival Contemporanea di Prato. Tra le bianche pareti dello spazioK siamo venuti a vedere Punk. Kill Me Please, di e con Francesca Foscarini e Melina Sofocleous, ma se invece di trovare due performer in scena ci fossero stati dei roadie, a questo punto non mi sarei neanche stupito più di tanto. E invece eccole lì in scena, prima ancora che cominci lo spettacolo vero e proprio, con addosso delle grandi coperte di cotone a mo’ di chador, le caviglie legate da nastro adesivo di carta, di cui ce n’è una montagnola sulla sinistra, mentre sulla destra di questo spoglio impianto scenografico poggia a terra un giradischi con qualche vinile sparso attorno. Le due danzatrici fanno dei piccoli e buffi passetti qua e là, seguendo uno schema che le vede sempre una di fronte all’altra ma mai sovrapposte, finché a un certo punto accade come un vetro che s’infrange: è la gracchiante voce di Poly Styrene che esce dagli altoparlanti. «Some people think little girls should be seen and not heard / But I think: oh bondage up yours! One-two-three-four!». Rullo di batteria e senza troppo preavviso ecco il riff al fulmicotone di Oh Bondage Up Yours!, celebre inno punk simbolo del femminismo di fine anni ’70, e a quel punto anche lo spettacolo prende forma mentre il pubblico fa da spugna dall’incredibile onda di suono che quasi ci ribalta.

Punk. Kill Me Please, di e con Francesca Foscarini e Melina Sofocleous (foto di Lisa Nocentini)

La performance è costituita da una sequenza di mini-scene che grazie ai titoli della tracklist diventano più intellegibili: ognuna di queste rappresenta una qualche riflessione sulla condizione femminile in senso lato, oppure dei momenti di passaggio storici. La musica non è sempre la stessa, qui «punk» sta per indicare un atteggiamento, una tendenza, uno stile di pensiero da vestire giusto il tempo di poterselo strappare di dosso per rivendicare un’identità, e niente è messo lì per caso, ogni frammento musicale dialoga con le scene in modo diegetico. Per esempio, nel segmento wagneriano con La Cavalcata delle Valchirie si evoca la fascinazione per la donna-progenitrice del fascismo epico, oppure, in alcuni momenti più lineari, la liberazione punk con una sfilata alla Vivianne Westwood (e i Sex Pistols di sottofondo), mentre nel finale sembra di assistere a un happening di body art anni ’70. Per quanto ci sia di fondo una certa ripetizione di scene, costumi e coreografie, che non sempre risultano eccessivamente diverse fra loro, vedere Punk. Kill Me Please è comunque come assistere a un assurdo montaggio in diretta di un documentario sul femminismo, registrato su carne e ossa e proiettato tridimensionalmente di fronte a noi. A quel punto mi sono reso conto di quanto dell’offerta spettacolare di questo festival si sorreggesse su un’urgenza tutt’altro che sottile, ma messa in primo piano a chiare lettere: c’è fame di femminismo.

Non che sia una novità per lo storico direttore di Contemporanea Edoardo Donatini: il suo interesse verso la scena al femminile, anzi, Contemporanea lo ha sempre avuto, con un debole per lo sguardo politico e di attivismo, in particolare se quello sguardo è donna. Il femminismo è tornato al centro del dibattito in questi anni, soprattutto dopo il #metoo, mettendo a ferro e fuoco anche se stesso e la sua storia, creando confronti al suo interno, promuovendo una mutazione anche di sensibilità (basti pensare alla questione della transfobia negli ambienti del femminismo così detto radicale). La necessità di questo è sotto gli occhi di tutti, le politiche di parità non bastano laddove i problemi si trovano fra gli anfratti del quotidiano, precedono ogni disegno di legge perché sono parte della nostra morale, inquinano ogni relazione sociale. Il pregiudizio è questo, è una struttura statica di regole, comportamenti, significanti, contro i quali oggi il femminismo combatte una battaglia senza quartiere. Ma nel nostro piccolo osservatorio composto da sipario e sedie distanziate, abbiamo potuto disporre di una notevole scelta di prospettive, gran parte dal richiamo internazionale, come HATE ME, TENDER – Solo for Future Feminism di Teresa Vittucci, Saison sèche di Compagnie Non Vova e Phia Ménard, Be Arielle F di Simon Senn e Jezebel di Cherish Menzo (e in parte anche Punk. Kill Me Please, che sebbene la sua produzione italiana respirava ben al di fuori delle Alpi). In tutto il programma solo Siede la terra di Maniaci D’Amore e Kronoteatro ha avuto l’onere di rappresentare il sentire nazionale, soffermandosi sulle mancanze, sui vuoti lasciati dal machismo e dal maschilismo.

Il rito come passaggio

«Non si fa fatica a riconoscere che i “primitivi” cementano il proprio ordine sociale attraverso la credenza in fantasmi e spiriti, raccogliendosi a danzare intorno al fuoco nelle notti di luna piena. Quello che stentiamo a capire e che le nostre moderne istituzioni funzionano esattamente sugli stessi presupposti».

– Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità

Finito l’ultimo spettacolo del festival, torno a casa e scrivo una lista dei temi che hanno permeato gli spettacoli a trazione femminista:

  • La necessità di superare il concetto di verginità come purezza morale.
  • Il rito come sovrastruttura.
  • Il rito come liberazione.
  • Il capitalismo come sorgente dei pregiudizi di genere.
  • Gli stereotipi di genere e le loro conseguenze nel quotidiano.
  • Il concetto di “femminilità”.
  • Il ruolo tossico della virilità.

Alcuni di questi punti hanno prodotto riflessioni stantie al limite del dozzinale, altri invece hanno messo a nudo confini altrimenti invisibili, giocando con arguzia su quel filo teso tra pregiudizio e fattualità, senza rifuggire dalle contraddizioni. Senza dubbio, se c’è uno spettacolo che ha saputo incarnare tutti questi punti in un’unica messa in scena, quello è stato Saison sèche, il mastodontico meccanismo coreografico-scenografico di Compagnie Non Vova e Phia Ménard. Ménard negli ultimi anni è stata spesso tacciata di provocare per il gusto di farlo, ma francamente tutto si può dire di Saison sèche tranne che le sue provocazioni si limitino a mettere a disagio lo spettatore, anzi, guardando lo spettacolo ci si ritrova coinvolti anche nella gioia, nell’epica del racconto, nel tripudio di energie della rinascita.

Saison sèche, di Compagnie Non Nova e Phia Ménard

L’impianto scenografico è impressionante: al principio della performance le sette ballerine sono quasi schiacciate dal soffitto semovente che durante tutto lo spettacolo salirà e scenderà coadiuvato da frastornanti suoni meccanici ed elettronici. Sembra una scena rubata a un film horror, una strana stanza in una clinica psichiatrica, oppure una clinica ancestrale dove nel buio primordiale sono nate le donne, tutte munite di orsacchiotto, impaurite dalla struttura che le sovrasta. Segue un altro quadro, un febbrile sabba che richiama quello urbano di The Lords of Salem (Rob Zombi, 2012): è una danza infernale quella che si scatena in scena, le pitture facciali sogghignano isteriche e i corpi nudi si rincorrono ridendo e urlando oscenamente; il ritmo della coreografia si fa percussione ipnotica, un inquietante quanto catartico rito di passaggio collettivo. Ma la svolta, non solo stilistica ed estetica come potrebbe sembrare di primo acchito, avviene a metà pièce, quando le danzatrici cominciano a vestirsi da uomini. C’è il galantuomo alla Jay Gatsby, il calciatore sempre scattante, un ragazzo di periferia, un impiegato di mezz’età, un pompiere e forse uno spazzino, ma è l’atto a essere conturbante: di fronte a noi avviene un rituale di possessione. Una volta cambiati i costumi la coreografia muta radicalmente e si traduce in una progressiva marcia militare dagli schemi geometrici ritmici reiterativi, è un calpestare pneumatico e acefalo. Vi è naturalmente una conclusione, probabilmente scontata, una sorta di collasso che annienta anche la scenografia, ma non è in questo atto liberatorio che si esaurisce il lavoro di Phia Ménard, quanto nella relazione tra sabba e trasmutazione, il ribaltamento dei generi che prospetta una società che non neghi le sue intrinseche differenze ma s’impossessi degli stereotipi, i quali, almeno così si evince dallo spettacolo, altro non sono che evocazioni dei ruoli sociali che (ci) imponiamo tutti i giorni.

Zoé di Luna Cenere (foto di Antonio Ficai)

In contrapposizione al lavoro stratificato ma assolutamente decifrabile di Ménard erano presenti a Contemporanea altre due performance, una che si sviluppava anch’essa attorno al concetto di possessione, ma attraverso dispositivi di realtà aumentata (Be Arielle F) e l’altra invece che tornava al principio, ponendo domande esistenziali sull’origine della disparità tra i corpi (Zoé). Quest’ultima, una coreografia di Luna Cenere prodotta da Körper, non c’entra molto con questa mia cornice femminista, in quanto si pone su un piano più generico, anche se non si può non notare un dialogo con lo spettacolo di Ménard per quanto riguarda la dimensione corporea. Ma se in Saison sèche il corpo è vettore di ritmo (ovvero di riti viventi), di suoni e significanti, Zoé è più un’ellissi astratta e algida, a tratti con guizzi cronenberghiani, che evapora lentamente, lasciando poco più che un’impressione nello spettatore mancando un grande occasione di riflessione.

Be Arielle F di Simon Senn

Sebbene invece più chiaro nelle sue premesse, è risultato altrettanto vago e asettico Be Arielle F di Simon Senn. L’idea alla base di questa conferenza-spettacolo è quella di raccontare l’esperienza di Senn in un mercato digitale di texture prese da scannerizzazione di corpi umani. Senn si chiede cosa avrebbe potuto farci con quel corpo digitale, e pare che non ci fossero troppi limiti legali, se non per il porno, ma anche qui i contorni erano sfocati. Avendo però solo la “pelle” di questa ragazza, Senn compra anche uno scheletro e dei volumi, in modo tale da darle un peso e così poterla “indossare” durante le sessioni di realtà virtuale. Completata questa esperienza, Senn risale alla modella originaria che aveva posato per questo sito di scan, tale Arielle, e le mostra il suo lavoro ancora in elaborazione ponendole domande su come lei si senta ad avere un corpo che non le appartiene più. Secondo Senn quest’azione ha comportato per lui un cambio di prospettiva, fungendo da spinta verso una ricerca sulla propria femminilità; ma in realtà la mia restituzione di questa conferenza-spettacolo è parecchio parziale, perché gli elementi che Senn ha gettato sul pubblico erano veramente troppi, e così nessuno di questi veniva realmente analizzato durante la performance. Era come restare sulla superficie di un racconto che sai ti sta nascondendo tante sottotrame, ma nessuna di queste alla fine è stata mai scritta davvero. La complessità invece di essere presentata con efficacia viene appiattita. Per esempio, vengono evocate ma mai espresse le implicazioni psicoanalitiche (cosa definisce l’identità di genere?), allo stesso modo anche quelle giuridiche (siamo sicuri che questi modelli dovrebbero essere accessibili a chiunque e non esclusivamente a dei professionisti nei settori delle arti grafiche?), per non parlare di quelle morali, forse le più perniciose e dalle quali ci si aspettava una qualche interpretazione peculiare durante lo spettacolo. In definitiva, ciò che sia Zoé che Be Arielle F hanno messo in evidenza è quanto non sia facile affrontare certi temi, sia che l’approccio verta sulla poesia sia che cerchi di porre delle domande specifiche, e tutto questo rende ancora più notevole lo sforzo di Saison sèche, non solo capace di far scaturire domande nel mutismo della danza, ma riuscendo perfino a suggerire qualche ipotesi di risposta.

Il rito come consuetudine

«Se il rito viene sempre prima, e le categorie di pensiero sempre dopo, allora il rito non può essere sempre una corruzione decadente del pensiero. La loro sequenza storica fa pensare che i concetti emergono dal rito, e non il contrario. Come a dire, noi non eseguiamo riti religiosi perché crediamo in Dio, ma crediamo in Dio perché eseguiamo i riti. E questo è già un principio importantissimo».

– Robert M. Pirsig, Lila

Il nostro quotidiano è fondato sulla ritualità. Ciò significa che anche ciò che abbiamo attorno lo leggiamo con gli occhi del rito, i gesti, le parole, le risposte, fanno tutti parte di un linguaggio che precede le nostre intenzioni e modifica il senso delle nostre parole calibrandolo sul sentire comune. Il linguaggio è oggi uno dei terreni di battaglia dove il femminismo sta cercando di suggerire nuove sensibilità, più aperte che in passato, più inclusive. Ovviamente al centro c’è sempre l’essere donna, la somma dei suoi significati, quelli imposti dalla società e quelli invece conquistati, il rapporto tra individualità e femminilità, la rappresentazione dei media e quella dei social. Rito, pregiudizio e genere sono i tre elementi sui quali Teresa Vittucci, Maniaci D’Amore e Cherish Menzo hanno concentrato i loro sforzi spettacolari, con risultati ovviamente molto diversi tra di loro.

HATE ME, TENDER di Teresa Vittucci (foto di Cyushiko Kusano).

HATE ME, TENDER – Solo for Future Feminism, la performance di Vittucci che ha aperto il festival all’ex cinema Excelsior il 17 settembre, mette subito in chiaro il suo intento così come il suo approccio iper-corporale. Il corpo nudo della Vittucci è presente, parafrasando una delle più celebri performance di Marina Abramović, ed è così intenso nella sua fisicità da mettere a nudo più il pubblico che lei. L’autrice-performer canta, dialoga col pubblico e nel frattempo compie coreografie minimali e penetrazioni vaginali: c’è perfino spazio per delle frustate sulla schiena che la portano a fare degli urletti che diventano i versi di una canzone pop. In questa potente immanenza però si attua una dissonanza con i concetti espressi durante lo spettacolo. L’idea è quella di prendere di petto la controversa figura della Vergine Maria e demolire alla base il concetto di verginità come purezza morale e della penetrazione come rito di passaggio, ma la faccenda ha un aspetto molto tecnico, e così la drammaturgia si slega alla forza del corpo e perde di forza e di interesse. C’è anche una discreta dose di retorica, come l’attacco al sistema capitalistico reo di inneggiare alla verginità tramite il consumismo, e quindi il costante acquisto di cose nuove da spacchettare e possedere fino al prossimo eccitante acquisto, come se il gusto del nuovo o il mito della verginità nascessero con Adam Smith.

Per un attimo mi è parso che anche Jezebel, pirotecnica performance di Cherish Menzo che ha chiuso il festival al Teatro Metastasio, soffrisse della stessa dissonanza, quando invece i suoi due movimenti, le due parti così dinamicamente diverse di cui è composto lo spettacolo, combaciano perfettamente e si completano a vicenda. La parola in Jezebel è rappata, con un flow monolitico e martellante dalla scena contemporanea underground di collettivi come Armand Hammer. “Jezebel” sta per indicare le “bad girls”, quelle ragazze considerate buone solo per fare bella mostra di sé nei video hip-pop a cavallo tra gli anni ’90 e i 2000, e Menzo in questo suo solo al Metastasio ne ripercorre l’iconografia costruendo un mito laddove ancora non c’era e demolendolo a colpi di rime. Nella prima parte la jezebel è un animale antropomorfo, come un mito dell’antica Grecia: la bellissima pelliccia che indossa è la sua vera pelle; le unghie, lunghissime, invece che glamour sono inquietanti estensioni da insetto, e poi i denti, e ancora lugubre membra che cadono a terra inermi. Menzo mette in scena la bruttezza dello sguardo maschile, il suo desiderio svilente, la sua possessione competitiva. Poi la svolta, il cambio di registro: l’artista riprende possesso di sé e comincia a cantare scimmiottando il linguaggio scurrile di quel rap sciovinista, lo fa con uno stile trascinante, che lascia il pubblico allibito ed elettrificato. È una decostruzione accurata ma mai algida, mai scientifica, è catarsi, e quindi teatro.

Jezebel di Cherish Menzo (foto di Annelies Verhelst)

Prima di chiudere per introdurre l’ultimo spettacolo che ho voluto considerare all’interno di questo focus sul festival, ho bisogno di introdurre un concetto di natura storico-antropologica. Tra le più accreditate ipotesi sulla nascita del linguaggio umano c’è quella del pettegolezzo. Melvin Konner, autorevole antropologo e neuroscienziato americano, è andato alla fine degli anni ’90 a studiare le varie popolazioni nel deserto del Kalahari, con particolare attenzione per i San e i loro clan. Konner durante quell’esperienza ha registrato come il pettegolezzo regolasse direttamente diverse funzioni quotidiane, per esempio costringeva ai membri più avidi di cedere parte della loro provvigione quando eccessiva per un singolo, oppure modificava sensibilmente il comportamento pubblico di ogni individuo. Oggi è opinione comune tra gli storici che la nascita del linguaggio umano sia strettamente legata al bisogno di pettegolare, alla sua funzione di regolamentazione della tribù. Questo breve interludio mi serve per anticipare la chiusura di questa aeropittura sul femminismo a Contemporanea, sono dati che ritengo particolarmente significativi alla luce dello spettacolo di prosa, l’unico finora, che ha avuto l’onere di occuparsi del piccolo mondo antico italiano. Il titolo è l’inizio di un celebre verso dantesco: Siede la terra, spettacolo dei Maniaci D’Amore con la collaborazione di Kronoteatro presentato allo spazioK, il quale sarebbe stato senza dubbio la drammaturgia più brillante dell’intero festival se non avesse dovuto dividersi il podio con un altro spettacolo – ma forse addolcirà questa consapevolezza il sapere che il concorrente è La Fabbrica degli Stronzi, anche questo nato dalla collaborazione tra Kronoteatro e Maniaci D’Amore. I due lavori sono impeccabili, ma la cosa più notevole è che entrambi partono da premesse molto similari per poi innescare situazioni in scena profondamente diverse, sia nell’interpretazione che nei contenuti. Perché se anche in La Fabbrica degli Stronzi è enucleare il rapporto madre-figli, qui la riflessione si concentra sul ruolo della frustrazione nei rapporti familiari e alla sua precisa attribuzione, spesso auto-assolutoria e parziale, mentre per quanto riguarda Siede la terra il ruolo del machismo e delle conseguenze di questo sono la premessa allo svolgimento della storia (e quindi rientra nell’ottica femminista di questo articolo).

Siede la terra di Maniaci D’Amore (foto di Luca Del Pia)

In un ignoto paesino italiano si svolgono delle vicende che hanno tutto il carattere del piccolo dramma borghese, innescate dal pettegolezzo e dal sentito dire, eppure sono queste le armi con cui si forgia il costume morale benpensante della penisola. Come nelle tribù del deserto del Kalahari, anche nel paesello immaginato da Maniaci D’Amore una madre può influenzare l’opinione morale di tutta la popolazione, costruendo reputazioni oppure demolendole con una telefonata. Incastrata nella rete della madre una figlia, Teresa, costretta a dover prendere le distanze da una terribile scritta che compare sul muro che fa da unico fondale dalla scenografia: «Teresa stacca i pompini alla stazione». Questi sono gli elementi scatenanti una serie di piccole azioni che i due attori raccontano attraverso diverse forme di narrazione e brevi coreografie, canzoni, siparietti, mostrando i traumi della madre (mollata dal padre perché non più interessata a fare sesso con lui poco dopo il parto, e per di più umiliata perché lui ha sposato «una di giù») e le loro conseguenze sulla figlia. È un mondo di mancanze, è il lascito degli uomini alle donne, è uno spazio asfissiante dove ogni manovra è lecita e il premio è magro: un matrimonio, che ripari retroattivamente le ingiustizie del passato.

Così come l’urlo sguaiato di Poly Styrene accese una miccia nel punk inglese che continua a esplodere, questa edizione di Contemporanea ha acceso un faro per mostrarci un palcoscenico ricco di domande sull’oggi che necessitano di risposte collettive. Che sia col pugno chiuso o con un passo di danza, c’è una generazione che vuole mettere a ferro e fuoco le consuetudini di una vecchia società per sostituirle con un futuro ancora da mettere in scena. Evidentemente è tempo di nuovi riti per nuovi generi.

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