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“Noosfera Lucignolo” di Libero Fortebraccio Teatro / Roberto Latini

di Altre Velocità

Seduto, i piedi a mollo in qualche centimetro d’acqua, sta Lucignolo di zazzera bionda e occhi di latte, mentre un cappio pende sopra la sua testa. Strappato alle pagine del romanzo di Collodi, il più famoso monello d’Italia si dimena disarticolato al centro della scena, ritagliato e ricucito dalla mano e dalla voce di Roberto Latini. Abbandonata la vertigine dello scandaglio vocale nei microfoni di Iago, altro esemplare di cattivo ragazzo che molto aveva da dire, la nuova produzione di Libero Fortebraccio si chiude dentro la noosfera, tondeggiante contenitore del pensiero, una sorta di mente collettiva che in questo caso rimanda al ribelle e asinino compagno di giochi di Pinocchio. Se è nella testa ciondolante di Lucignolo che siamo finiti, sembra di galleggiare in una bassa palude e, immobili, di essere attraversati da violenti flussi di coscienza. Roberto Latini opera una sistematica decostruzione del testo, ingurgitato e riscodellato in scena a brandelli, sfilacci e grumi: una partitura ritmica e profondamente poetica – capace di farsi suono, passare attraverso l’evidenza del corpo d’attore e di creare nuovi mondi, altri dall’originale; scrittura scenica che ha il grande merito di non dire, eppure dare, molto, a colpi diretti nel buio, nello spazio tra le parole, tra una scena e l’altra, tra una battuta e l’altra. Le musiche di Gianluca Misiti e la luce di Max Mugnai lo accompagnano dall’inizio alla fine, forti presenze di un lavoro che sembra più che mai corale. Questo Lucignolo, marionetta in carne e ossa, s’accende e smuore continuamente, è involucro floscio, inchiodato a una sedia, attraversato a intermittenza dalla vita elettrica dei personaggi: ha la parrucca gialla di Geppetto, gli occhi ciechi (per finta) del Gatto e la voce di tutti quelli che si appropriano ogni volta del suo corpo, dando origine a un’inquietante giostra di spiriti senza volto, personaggi ridotti a fantasmini che sussurrano, gridano di defunte coscienze parlanti e mamme salvifiche e turchine. Lucignolo è al centro del loro turbinare, alla guida del carro che porta tutti «in quel paese benedetto», terra promessa di balocchi infiniti, miraggio di un altrove che ci riguarda da molto vicino. Figura della fuga e della metamorfosi, Lucignolo è il portavoce dell’utopia, del fare artistico che non si arrende e non si adatta, ma si spinge «lontano, lontano, lontano», senza timore di perdere tutto. Asino, asino chi si mette in gioco e rischia. Asino chi rifiuta i compromessi, asino chi agisce sfidando l’evidenza. Difficile non trovare in Noosfera Lucignolo riferimenti all’attuale deprimente situazione in cui affonda l’arte di questo nostro Paese. Difficile dimenticare che Libero Fortebraccio esce abbattuto – per una mancanza di fondi non più colmabile dalle forze della compagnia – dalla coraggiosa esperienza del Teatro San Martino di Bologna: prezioso spazio di cui è riuscito ad aprire le porte a una programmazione che per tre anni di seguito ha regalato alla città piccole perle della ricerca contemporanea, conclusa quest’anno con la presentazione di un’amara “non stagione”. Buio. Quando torna la luce la sedia è rovesciata in terra, il cappio dondola e poi cade, memore di un avventato burattino appeso da Collodi a un ramo di quercia. L’estrema trasfigurazione avviene nell’inattesa e isolata scena finale, dove l’attore diventa goffo quadrupede a mollo, si spoglia e si riveste scomposto, scalcia e scivola nell’acqua che forse è l’ultimo fango, forse una sorgente.

di Alessandra Cava

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