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Navigare nella nebbia dell’esistenza: “Io sono il vento”

di Alex Giuzio


Nella nebbia fine ma avvolgente e nella luce ovattata ma diffusa, due uomini sono a bordo di una barca in mare aperto. L’Uno è scomparso, forse si è tolto la vita, dice «non ci sono più», «è successo e basta», poiché «non ci sono posti dove è possibile stare». L’Altro è sconfortato, quel che è accaduto «è terribile», si riempie di domande alle quali non può esserci una sola risposta. Sono due uomini dall’identità non definita, L’Uno e L’Altro appunto, come li nomina Jon Fosse, autore di Io sono il vento messo in scena dal regista tedesco Lukas Hemleb e interpretato da Luca Lazzareschi e Giovanni Franzoni, una produzione di Emilia-Romagna Teatro che ha debuttato all’Arena del Sole di Bologna e che sarà in scena fino al 29 marzo 2015 al Teatro delle Passioni di Modena. Potrebbero essere due marinai o due fantasmi che mentre viaggiano verso l’ignoto dialogano sulla difficoltà e sul piacere di vivere, sul silenzio e sul frastuono dell’umanità, su come poter scappare o come trovare il coraggio di restare, tentando continuamente di definire il disagio che li accomuna, ma non riuscendoci perché lo vivono con sentimenti opposti. Nell’interpretarli i due attori pronunciano ogni parola mantenendola scarna, nuda nella sua crudezza e pura nella sua potenza; non si vestono di retorica o di declamazione ma restano ancorati al concetto che esprimono e lo fanno proprio con i movimenti controllati, gli sguardi fissi, i silenzi tesi, la desolazione interiore. Tutto questo mentre costruiscono e decostruiscono l’efficace scenografia di Pietro Babina composta da 120 casse di plastica, dando vita man mano a una pedana-ponte su cui camminare evitando i vuoti che si aprono nel mezzo, a grandi cubi che sembrano scogli da scansare, a una grande piramide finale che pare l’onda anomala tanto temuta, che tutto travolge. La minimale composizione sonora completa il necessario per portarci nell’atmosfera rarefatta e sospesa di un onirico viaggio nell’aldilà, un limbo, un purgatorio o comunque una dimensione ultraterrena; un’ambientazione perfetta per questa traversata di solitudine in cui, dice L’Uno, «tutto è immaginato, ma è come se fosse vero», proprio come nell’essenza del teatro.

L’Uno (Lazzareschi) è buio ed enigmatico («Dico cose perché devo dirle»), non riesce a pronunciare il suo malessere, non sopporta il «rumore degli altri» ma non è a suo agio nemmeno nel silenzio e nella solitudine; L’Altro (Franzoni) appare invece più positivo («Non è poi così male la vita») e incalza il compagno di viaggio con domande per capire il suo stato d’animo, ma riceve solo delle risposte subito contraddette, delle frasi sempre ambivalenti e mai chiare che lo mandano in crisi. Inizialmente i due uomini sono in due piani spaziali diversi, L’Uno sopra le casse di plastica e L’Altro sulla pedana più in basso, a dimostrare questa differenza. Eppure sembra che si conoscano e che percepiscano lo stesso disagio, si affannano nel tentativo di concordare sui loro sentimenti e arrivano sempre a un passo dal riuscirci, ma poi negano e decostruiscono e ripartono da capo, continuando con poche parole a evocare teorie e filosofie del linguaggio di echi wittgensteiniani, talvolta complesse da cogliere («quella singola immagine dice com’è quella cosa perché non si riesce a dirla in un altro modo, e invece dice sempre qualcos’altro»). Nel mentre, navigano verso un’isola di scogli dove si fermano per pasteggiare e poi ripartono verso il mare aperto, finché non devono prendere una scelta: L’Uno vuole navigare dritto e consapevole verso l’ignoto, L’Altro ha paura e lo invita a fermarsi; L’Uno ha uno sguardo lucido e folle di chi sa di compiere un gesto da cui non si torna indietro, L’Altro non riesce nel tentativo di farlo desistere. Finché L’Uno, la cui interpretazione di Lazzareschi qui raggiunge uno slancio ostinato e quasi eroico, non si getta in mare e rifiuta di essere salvato, abbandonandosi senza rassegnazione alla morte; per poi apparire come una resurrezione alle spalle del compagno ripetendo le stesse frasi dell’inizio dello spettacolo: «è successo e basta», «non ci sono posti dove è possibile stare». Ciò che era già accaduto al principio dell’opera torna al suo termine: una chiusura ciclica, l’evocazione dell’eterno ritorno, che lascia lo spettatore definitivamente turbato. Eppure c’è un passaggio che pronuncia L’Uno alla fine del suo monologo ultimo, con la frase che dà il titolo dell’opera: «Sono solo peso / E non sono peso / Sono movimento / Vado via col vento / Io sono il vento». Un’accezione così leggera dell’eterna fine, il contrasto definitivo del testo che lascia il conflitto tra vita e morte irrisolto o forse risolto proprio per la sua mancanza di risoluzione. In questo sta l’efficacia del testo di Fosse: un testo di potente ambivalenza, essenziale e profondo allo stesso tempo; un dialogo pieno di vuoti e di silenzi che portano a lunghe riflessioni e taglienti angosce, in cui parole semplici costruiscono complesse architetture di affermazioni e negazioni. Parole ardue da pronunciare anche per i due attori, che vanno a toccare le proprie intime corde che vibrano durante le umane crisi esistenziali e i pensieri sul senso della vita; momenti di abisso che prima o poi attraversano chiunque rimanendo bene impressi nei nostri organi, e che i due attori hanno evocato a ogni replica tentennando, esitando e riuscendo infine a esprimere vivendo ciò che interpretano. Lazzareschi e Franzoni sono particolarmente abili nel caratterizzare con immediatezza i sentimenti dei loro due personaggi riuscendo allo stesso tempo a sfumare le direttrici e i confini che animano un rapporto contradditorio e metafisico nel quale lo spettatore è portato a carpire i mille rivoli che si dipanano da ogni parola. In fondo siamo in mezzo alla nebbia in mare aperto, dove tutto si confonde e non esiste la netta linea dell’orizzonte, come in certi dipinti a olio di Piero Guccione che sono i luoghi paralleli perfetti dell’ambientazione di Io sono il vento: luoghi ideali per la meditazione, poiché il paesaggio è offuscato e la materia si confonde con l’apparenza, ma che impediscono ogni certezza e comprensione di ciò che sta al di là della coltre. L’eccezionale drammaturgia di Jon Fosse, nel suo lavorare per accenni e sottrazioni e confusioni, si trova in questo caso nel suo luogo-specchio; e la regia di Lukas Hemleb riesce a lasciare alla pancia del pubblico il compito di domandarsi se si può scappare dal peso dell’esistenza e del sociale, e se il prezzo della fuga è gettarsi in mare aperto senza risalire a galla. Lazzareschi e Franzoni hanno impiegato sudore per saldare tutti gli ingranaggi emotivi dei loro personaggi, ma giorno dopo giorno hanno stretto i nodi e dimostrato le capacità di arrivare a una giusta esecuzione di un testo faticoso per le continue e difficili azioni sceniche da compiere, complesso per le infinite sfumature che stanno dietro a ogni affermazione/negazione e potente per le umane angosce esistenziali che evoca nello spettatore con poche, asciutte e ben saldate parole. Che dicono sempre qualcos’altro.

foto di Luca Del Pia

L'autore

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

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