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Garella: «Teatro sociale? Preferisco chiamarlo “Teatro civile”»

di Altre Velocità

Fantasmi all’Arena del Sole fino al 26 febbraio, preferisce definire il suo teatro con l’aggettivo “civile”, poiché intriso di un intento fortemente politico, dove si includono prima gli attori e poi il pubblico. [caption id="attachment_748" align="alignnone" width="5616"] ph Luca Del Pia[/caption] Il teatro per Garella è semplicemente teatro e «deve avere una componente estetica intrinseca, altrimenti non comunica le sue motivazioni poetiche di fondo». Al progetto Arte e Salute Garella si è avvicinato grazie all’amico Filippo Renda, psichiatra di professione: passati alcuni decenni dal termine degli studi universitari, i due fanno riemergere i sogni dei vecchi tempi, quelli di giovani che si affacciano al mondo e desiderano contribuire al suo miglioramento. Vogliono tentare l’unione, apparentemente impossibile, tra teatro e scienza, facendo incontrare «attori e matti», scherza Garella in nome del rapporto ormai decennale che ha con i suoi attori speciali. Quelle delle stanze d’ospedale psichiatrico, quelle che nell’adolescenza hanno visto interrompersi percorsi di vita, le chiamano, lui e Renda, “esistenze sofferenti”. Si tratta dunque di un atto politico: l’intento è stato verificare se persone con forti traumi psichiatrici potessero rimettersi in circolo come soggetti economici con diritti e doveri sociali, dunque ridivenire individui con diritti pieni. «I nostri attori» ci ha raccontato Garella «hanno potuto riprendere un percorso interrotto con l’inizio della loro malattia, che solitamente si presenta nell’adolescenza, quando si arrestano percorsi di studio, rapporti d’amore o familiari. Noi volevamo cercare di far loro riprendere un percorso lavorativo».   [caption id="attachment_750" align="alignnone" width="5616"] ph Luca Del Pia[/caption] A questo obiettivo primario si aggiungono, inoltre, ragioni più personali e artistiche dello stesso regista: negli anni ’90 Garella sente di dover respirare aria nuova e assimilare il fervore contemporaneo nelle esigenze e nei racconti di chi fa teatro. La ricerca di Garella nasce dunque da presupposti quasi scientifici e il teatro inteso come terapia è in realtà solo una ricaduta che, anche a livello medico, è consistita nel trovare una dimensione unitaria a malattie croniche delle più disparate. L’intento politico vien da sé e, sottolinea Garella, «oggi come mai i nostri atti politici acquistano molta più rilevanza all’interno della società, poiché è venuta meno una rappresentanza forte». Questo, a 15 anni dalla prima esperienza, oggi si estrinseca nell’integrazione con un teatro cittadino e con il suo gruppo di artisti e tecnici, nonché con la cittadinanza, per la quale il valore estetico diviene apporto culturale. Dopo le tante difficoltà, sia personali e professionali, sia relative alla percezione cui questa totale apertura del teatro istituzionale andava incontro, anche e soprattutto da parte della stampa, oggi Garella si sente d’aver vinto la scommessa: gli attori sono scritturati per lavorare in teatro, cosa che non avviene in nessun’altra compagnia d’Italia o d’Europa in cui si tenta un apporto terapeutico dell’arte teatrale. Dopo più di un decennio, infatti, lo zoccolo duro della compagnia è sempre lo stesso: non una scelta di lavoro estesa a tutti i pazienti del dipartimenti psichiatrico, dunque, ma la ricerca di talento e di un futuro da attori professionisti (anche se Garella si oppone anche a questo aggettivo, poiché «l’attore non si può definire un professionista; gli architetti, gli avvocati sono professionisti. Gli attori sono artisti»). Da combattere c’è però ancora molto: il pregiudizio è il fantasma principale del mondo moderno. E nonostante i numerosi passi avanti nei termini di un’apertura e un’accettazione sempre maggiori, non bisogna mai abbassare la guardia. Per questo, dunque, non serve prudenza, ma «buttare il cuore oltre l’ostacolo: se c’è una visione, la si deve seguire».

 Ilaria Cecchinato e Angela Curina

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