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Motus: un "Panorama" su storia, scena e realtà sociopolitica americana

di Altre Velocità

SyrmaAntigones) alla luce della crisi greca; la compagnia si confronta con temi e problemi della moderna attualità (elaborando discorsi incentrati sul concetto di diversità e rivoluzione, in tutte le sue sfaccettature), impegnandosi in una riflessione attiva e “violenta”, scomoda nel suo mettersi e mettere a nudo. L’incontro più importante avverrà con Judith Malina nel 2011 attraverso lo spettacolo-evento The Plot is the Revolution, la trama è la rivoluzione (frase proveniente dello spettacolo Paradise Now portato in scena dal Living nel 1968). Silvia Calderoni (attrice che collabora con la compagnia dal 2005) si confronta con Judith Malina: due donne, due attrici, due Antigoni a confronto; in un passaggio di testimone che va a concludere il viaggio iniziato con SyrmaAntigones. E dopo questo lavoro? 2011> 2068 ANIMALE POLITICO PROJECT (2012-2013) che, come possiamo leggere nel sito ufficiale della compagnia, consiste in una serie di atti pubblici «che, fra utopie e distopie, visioni libertarie e catastrofiche, vedono di volta in volta coinvolti, con Silvia Calderoni, diversi artisti e liberi pensatori, giovani attori ma anche anziani, bambini, animali e abitanti della rete, economisti, scienziati, filosofi e rifugiati politici… invitati a dare il loro “Lungo addio all’oggi” e a immaginare senza limiti e freni inibitori, altre forme possibili di esistenza, resistenza, sussistenza, risonanza, comunanza, comunicazione, cooperazione, abitazione… e, of course, rivoluzione! Ogni slancio, ogni presa di posizione, sottende una visione possibile del futuro, un cambiamento, una proiezione lontana, politica, economica, artistica…». Il DJ set MDLSX(2015) che, mescolando musica rock e pop, video di Silvia Calderoni da adolescente e movimenti performativi potentissimi, realtà e finzione confeziona una riflessione sull’identità di genere che non può lasciare indifferenti. Raffiche (2016) che, ricalcando la riflessione già iniziata con MDSLX, lavora sui temi dell’identità e della rivolta. Panorama (co-produzione di Motus e La MaMa Experimental Theatre Club di New York, 2018), ultima produzione della compagnia, che inserendosi sulla scia di MDLSX e Raffiche, amplia e problematizza il ragionamento sull’identità, inserendolo nel panorama sociale americano che deve fare i conti con le politiche di Donald Trump.

Francesca Lombardi

Un pannello verde brillante ricopre il fondo del palco. Rivolta verso l’enorme schermo luminoso, vediamo una telecamera con il suo apposito supporto. Sembra proprio di trovarci di fronte a un set cinematografico, con un green screen da cui dovrebbero emergere immagini straordinarie. In alto, al centro, leggiamo la scritta in maiuscolo “Panorama”, che sembra proprio invitarci a proiettare su quello schermo verde, un’immagine, un pensiero, un orizzonte. Ne escono nuovi scenari esistenziali, confusi e mescolati tra loro, il cui comune denominatore è il sentimento della diversità, di un’identità nomade dal punto di vista dell’esistenza in generale, ma anche nel proprio essere attori. A raccontarsi sono i performer de La MaMa di New York, teatro dell’East Village fondato da Ellen Stuart, qui diretti da Enrico Casagrande e Daniela Niccolò dei Motus. I performer si alternano, sedendosi sullo sgabello di fronte alla telecamera che li proietta su uno schermo rettangolare alla loro sinistra, ritagliato sul green screen. Ne emerge una sorta di documentario sulle loro vite, in cui l’inquadratura e qualche effetto speciale comportano un’enfatizzazione dell’emozione espressa. Lo schermo, il pannello luminoso, la proiezione principale, unita a quelle collaterali ai lati del palco, provocano una moltiplicazione di immagini, quasi un overload, tanto da non sapere più da che parte guardare e cosa guardare. La confusione è data anche dai racconti dei performer, che si alternano a ritmo sempre più serrato, sino a prendere l’uno la vita dell’altro, così come la nazionalità, la storia, il sesso, l’intera identità. È un grido di affermazione che si fa corale, un grido per dirsi presenti, consapevoli del proprio essere in quanto attori, in quanto cittadini americani seppur nati da genitori immigrati, neri, asiatici, semplicemente se stessi. Sembra un’urgente necessità, forse per noi non così comprensibile, se non li caliamo nel contesto americano in cui vivono, in quel clima statunitense odierno che provoca in loro il dubbio “Who am I?”. È una domanda la cui risposta li porta a urlare a squarciagola di essere semplicemente quello che sono, senza vergogna. Lo mostrano attraverso diversità mescolate, confuse in un unico corpo, un’unica essenza: quella dell’essere umano.

Ilaria Cecchinato

Performance, video, proiezioni, documentari, tutto insieme sullo stesso palco nel medesimo momento. È questa confusione di linguaggi che regna sovrana sul palco, a farci entrare realmente nelle storie degli attori. I Motus si servono di tutti i mezzi che la nostra epoca mette loro a disposizione per mostrarci la contorta realtà del capitalismo avanzato americano. Non sono solo le parole, le urla, i gesti a toccare la nostra sensibilità, ma proprio questa confusione generale che ci porta a non capire di chi sia la storia che si sta raccontando. Panorama, andato in scena il 10 e l’11 maggio 2018 all’Arena del Sole, è una co-produzione realizzata con gli attori della Great Jones Repertory Company, performer residenti a La Mama, teatro newyorkese fondato da Ellen Stewart. Sul palco illuminato di verde, vengono proiettati dei video di presentazione, pian piano i rispettivi protagonisti salgono e continuano “in diretta” il racconto della loro vita. Dopodiché si mettono ai lati, in due tavoli “registici” ripresi da una telecamera, che proietta i loro volti in una specie di smartphone gigante. Tutti gli attori sono americani, con origini messicane, o vietnamite, o congolesi, o israeliane e sul palco dell’Arena del Sole sono costretti a porsi la domanda: Who am I? Sì, perché la nuova presidenza statunitense ha portato all’alienazione personale di ogni anima che non sia americana da almeno 10 generazioni (che poi vorrei proprio chiedere al «presidente arancione» chi sono gli americani purosangue, dato che siamo tutti emigrati storicamente da un posto a un altro e anche loro non sono altro che europei immigrati nel lontano ‘500). Le vicende autobiografie dei performer si intrecciano fino a raccontare un’unica grande storia: quella dei quasi 800.000 uomini che rischiano la deportazione per essere entrati da bambini negli Stati Uniti insieme alle loro famiglie, che non sognavano altro che un futuro migliore per la loro prole. Trump ha insinuato in questi ragazzi la paura di essere criminali, di stare in un luogo che conoscono come casa ma che secondo il grande magnate non dovrebbe esserlo a causa di un errore dei loro genitori. Sì, perché 50-60 anni fa le leggi erano diverse, e uomini e donne potevano entrare nel paese, portando con loro i figli senza passaporti. Ma negli anni questi bambini sono cresciuti, hanno studiato, hanno pagato le tasse, hanno lavorato in America e per l’America fino a divenire parte del substrato sociale e economico del loro paese. Sì, perché il loro paese è l’America, non ne conoscono un altro. Nel 2012 Barack Obama provò a risolvere questo problema firmando un ordine esecutivo, il «Deferred Action for Childhood Arrivals» (Daca), che consentiva agli immigrati entrati nel paese da bambini di evitare il rimpatrio e ricevere un regolare permesso di lavoro. Ma poi è arrivato Trump che ritenendo questo provvedimento incostituzionale, ha reso metà del suo popolo criminale. Se questo è il contesto politico e sociale, alla banalissima domanda Chi sei tu? una persona cosa dovrebbe rispondere? Panorama ci mostra la disperazione, la rabbia, lo sconforto e la paura che assale i performer, che come abbiamo detto, sono tutti americani di etnia diversa, nel tentare di rispondere a una cosa così semplice. Panorama muove la nostra empatia di essere umani, e ci mostra che in quest’epoca, in questa società, il capitalismo incarnato da Trump può distruggere ogni certezza, anche le più intime e personali.

Natasha Scannapieco

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