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"Masculu e Fiammina" di Saverio la Ruina. "Svegliatemi in un mondo più gentile"

di Altre Velocità

masculu e fiammina. Così sua madre chiamava i “ricchioni” del paese, usando un solo nome per racchiuderne altri cento: masculu e fiammina è quel ragazzo di via della libertà, nato uomo e diventato donna; il suo compagno di scuola, Vittorio, con una pancia da guardiacaccia e delle mani di fata; Angelo, che amava i maschi ma voleva una famiglia; Damiano e il suo amico, i “santi protettori del paese” che battono sotto i portici, non per denaro ma per amore. Masculu e fiammina è lo stesso Peppino e solo adesso, per la prima volta, trovava il coraggio di dirlo alla madre, che in fondo lo sapeva già. Non c’è nulla di un figlio che la madre non conosca: solo, a volte, si ha paura di chiamare le cose col proprio nome. «Non c’è nulla di anormale in me” dice Peppino, “i miei amici guardavano le ragazze, io guardavo i miei amici». Non c’era scelta né rimedio: era tutto naturale. Pure sua madre lo sapeva, lo sapevano tutti: Michele, Vittorio, Angelo e tutti quelli come loro, non erano soli al mondo, nonostante si credessero tali, non erano un’eccezione alla regola né un errore della natura. La natura non fa errori, a sbagliare è l’uomo con la sua tendenza ad allontanare l’altro, il “diverso” per affermare se stesso. E’ la legge della maggioranza, non sempre democratica, che per convenzione stabilisce ciò che è giusto e ciò che non lo è, definisce la “norma” e mette al bando ciò che la eccede. «E’ la parola», come ripete più volte Peppino, «che fa paura», è la parola che pone in essere: tutti sanno ma non dicono, perché dire qualcosa è come riconoscerne l’esistenza. Eppure il protagonista per la prima volta “dice”, parla, strappa il velo dell’omertà, libera i propri ricordi in un flusso che ha il ritmo di una canzone appena accennata in sottofondo: Ti Amo di Umberto Tozzi. È una esplosione di sentimenti, belli e brutti, a investire lo spettatore, che si trova di fronte immagini vivide dipinte a gesti semplici, senza artifici scenici. L’attore è solo sul palco a portare una testimonianza d’amore, come quando, ripensando al suo primo grande amore, Alfredo, conosciuto in un hotel di Riccione dove faceva il cameriere, leva un Amami Alfredo “alla Callas” ricevendo l’ovazione dei ricchi vacanzieri presenti in sala. Con questo espediente di metateatro viene offerta al pubblico una chiave di lettura dello spettacolo e delle intenzioni del suo autore: prendere parte attiva al cambiamento, agire per esso portando in giro una parola di testimonianza e facendola risuonare in un’eco che trascenda spazio e tempo e raggiunga i cuori di tutti. In ciò si differenzia dal protagonista che preferisce declinare ad altri questa responsabilità, che sceglie di addormentarsi sotto la neve, insieme alla madre, lasciando un biglietto su cui scrive: «svegliatemi in un mondo più gentile», in un mondo in cui ricchione significa solo “cu l’aricchi ranni”. Alla fine dello spettacolo però si ha la sensazione che questo intento non venga rispettato a pieno. Quella di La Ruina è parola che si fa teatro, semplice ed essenziale, con abilità magistrale diretta al cuore dello spettatore, ma che alla fine manca il bersaglio a causa di una drammaturgia che cede proprio alla fine, lasciando dietro di sé un brivido per quel che sarebbe potuto accadere. Una parola che non si risolve in azione, che resta sussurrata senza raggiungere il “fortissimo” suggerito dalla voce prestata da Mina all’omonima canzone di Rita Pavone con cui si chiude lo spettacolo.

Gaetano Palermo

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