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“Made in Italy” di Babilonia Teatri

di Altre Velocità

In principio fu un urlo. Poi, una mela rossa, al neon, pendente. Sotto, lo sguardo fisso in platea e mani a copertura delle proprie nudità, Enrico Castellani e Valeria Raimondi incarnano il tradizionale quadro di Adamo ed Eva. Nella sua nudità si presenta anche la scena e tutto è visibile: il macchinista, le corde, il tecnico audio, la sua station. Il teatro non si maschera e trae forza dalla sua onestà e modestia di mezzi.

La staticità figurativa si anima al levarsi, all’unisono, di una sfilza di giuramenti su presenze metafisiche e prossime, tutte collocate sul medesimo piano; si giura “che no podèo, no savèo, no voèo”, senza garanzia salvifica da un indistinto peccato reiterato. Ma è soltanto il preludio.

I due si vestono e si collocano in posizione di scatto, pronti per correre tutto d’un fiato uno spettacolo che attraversa spazi e voci del Nord Est. A partire da uno spaccato in una pizzeria: «L’idea dello spettacolo nasce da un fatto che ci è accaduto realmente – ha dichiarato Castellani alla rassegna Teatri invisibili di San Benedetto – siamo andati in una pizzeria e il telegiornale riportava la notizia dell’abbattimento del muro che divideva la parte di Padova abitata da extracomunitari. Tutta la pizzeria è allora insorta e ha cominciato ad utilizzare una serie di appellativi ed insulti nei confronti di tutti gli extracomunitari».

Si ascolta, non si vede, un cumulo di situazioni e stati d’animo di disagio lavorativo, economico, esistenziale. Disoccupazione, tasse, mezzistipendi, inflazione – e le insidie del consumismo, del materialismo, degli status symbol acuiscono ed erigono aggressività e velleitarismo a maschere protettive. La lotta tra poveri o frustrati ha in palio soldi e sogni e non risparmia schermaglie nell’esperanto delle volgarità.

Una regione che subisce la globalizzazione e non ammette il melting pot trova qui espressione in una lingua babelica che alterna italiano e dialetto, registro formale e slang, riferimenti colti e mediatici, con innesti di slogan, spot, hit. La scansione, a voci alterne o simultanea, è marziale, inflessibile, neutra; ma i quadri di recitato sono demarcati da esplosioni sonore punk-rock-pop e in queste, emblematicamente, la coppia balla non in duetto ma con il pubblico, rivolta ad esso. I significanti si rincorrono, accostando i significaticon giochi linguistici a volte comici, a volte disarmanti; le ripetizioni, a loro volta, rafforzano la sonorità ritmica e al tempo stesso confermano una realtà modulare, monotona, costrittiva.

La supplica “Buongiorno, Dio! Lo sai che ci sono anch’io?” trova risposta nell’esultanza del radiocronista e poi di Enrico alla vittoria dei mondiali di calcio, nella finale tra Italia e Francia. Sul palco si dimena non un ultras ma un uomo comune che scopre una canottiera con inciso “io sto bene”. Piovono coriandoli mentre scroscia la canzone dei C.S.I. “Io sto bene, io sto male, io non so cosa fare…”. Il fenomeno calcistico messo in scena come raro momento di identificazione e realizzazione nazionale è accostato al funerale di Pavarotti, di cui udiamo il commento da una voce fuori campo, sentiamo e vediamo le frecce tricolori sfrecciare nel cielo mentre gli sguardi rialzati degli attori le seguono con partecipazione. E un angelo, prima disceso a consolarli e consolarci, sviene.

La fragilità soggettiva, dunque, non trova rinforzo né nell’aggregazione collettiva, né in una triade familiare dissacrata dagli oneri economici, né, infine, nel rapporto di coppia, degradato a mero gioco seduttivo e possessivo. La sessuomania, rispetto alla cattolica sessuofobia, non si rivela liberatoria ed in chiusura la voce di Venditti invoca un assolutorio “perdono” e promette il ritorno “dalla pelle al cuore”. Al contempo, una folla di nanetti e di Biancaneve clonate è condotta in scena a snocciolare costi della vita che sgranano la progettualità non solo del Nord Est, ma del Made in Italy.

Con altri gruppi coetanei, in particolare il Teatrino Sotterraneo, i Babilonia Teatri condividono alcune cifre stilistiche: la tecnica delle interruzioni, l’assenza di una narrazione, una “regia” collettiva, l’accumulazione linguistica, il non-sense. L’abilità più ammirevole si rileva nel ricorso non ad una semplice comicità ma ad un umorismo più riflessivo, apparentemente acritico, accessibile ad un vasto pubblico che, senza avvertimenti, è condotto ad una presa di coscienza.

Già con Underwork i giovani veronesi ci avevano stupiti per le trovate sceniche e soprattutto per l’inedita rappresentazione della precarizzazione dell’esistenza, in relazione al precariato lavorativo. Made in Italy, premio Scenario 2007, per quanto esuberante non manca di simmetria, varietà, senso della misura specie del tempo, e stabilisce una tappa intermedia di un itinerario che comincia a delinearsi. Ora ci attende Pornobboy con un’articolazione tematica e scenica più trasversale ed ariosa. Ma le luci in sala sono ancora accese.

di Silvia De March

(fotografia di Marco Caselli)

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