altrevelocita-logo-nero
(foto di Paolo Lauri)
(foto di Paolo Lauri)

“Macbeth” di Matteo Pecorini. La fine di un teatro in dismissione

di Giuseppe Di Lorenzo

Non l’avevo mai visto Macbeth, vestito da accanito giocatore di briscola, caracollare verso le streghe come un sornione Padre Ubu e provocarle scompostamente, neanche fossimo all’ARCI: «Brutte! Vu’ siete delle brutte fattucchiere!» e queste, sedute di fronte a lui impassibili, non degnandolo nemmeno d’uno sguardo, prontamente rispondergli: «O’ tu sarai bello te!» scatenando un serrato botta e risposta a cui partecipa perfino il regista dello spettacolo cercando di portare ordine in questa baruffa surreale. No, non l’avevo mai visto Macbeth scendere dall’alloro del classico e farsi contemporaneo in questo modo, sporcarsi le mani con un tempo non suo, e rivivere con un brio che nulla c’entra con la vuota solennità stantia del teatro-strettamente-detto, ma con la giovialità di un periferico giorno ai confini della settimana.

Macbeth. Il futuro nell’attimo è un lavoro demenziale, non nella sostanza che è invece di pregevole fattura artistica, quanto nel suo cuore surreale, che abbraccia le noie della vecchiaia con irrefrenabile gioia. Questo spettatolo infatti è l’esito di un laboratorio di teatro e musica ideato dall’attore e regista Matteo Pecorini coadiuvato da Tommaso Ferrini e con il coordinamento dell’animatrice Lauria Biagioli. Sviluppatosi nei tre mesi finali del 2023 grazie alla Diaconia Valdese Fiorentina e il supporto del Quartiere 2 e 3 di Firenze, il progetto ha preso vita dentro le mura della RSA “Il Gignoro” di Firenze, fortemente voluto dalla sua direttrice, la dottoressa Marta Casalone Rinaldi, e si è concluso con una messa in scena a dir poco rocambolesca in un freddo 16 dicembre (che replicherà per il suo secondo atto a giugno). Più di venti anziani della Casa di Riposo e del Centro Diurno “Il Gignoro” hanno partecipato a questa iniziativa, che Pecorini ha saputo gestire tenendo sempre a fuoco l’obiettivo l’artistico, proponendo non un Macbeth in una RSA, ma un Macbeth che avrebbe conquistato le platee di qualsiasi teatro.

«Potrebbe durare da un’ora a quattro, dipenderà da quanto gli attori si ricordano o improvviseranno!» così il regista c’introduce allo spettacolo, mentre come spettatori invadiamo uno spazio insospettabilmente bello come il cortile della Casa di Riposo del Gignoro, ricordo di una villa tutt’altro che sfiorita. Una delle attrici che interpretano il concilio delle streghe prende con forza il suo deambulatore e ci fa strada verso “l’antro della strega”. Mentre circumnavighiamo, lentamente, una parte della struttura godendo di volte e piccoli spazi verdi, ci viene fatto intonare un canto da Erinni in caccia. Scendendo per una rampa che ci porta al piano seminterrato il canto si mescola con il lambiccare bambinesco di strumenti percussivi, e come in un rito ellenico tascabile entriamo nel mondo del teatro.

Il soffitto un po’ basso e le luci su toni viola e giallo rivelano questo semicerchio in cui come un’orchestra si dispone il corpo recitante su tre file, uomini e donne divisi mentre al centro un corridoio finisce su un fondo scena neutro e di fronte a noi, in alto, appeso a un filo rosso sangue, un tamburello. A metà tra Wagner e Ionesco, i laboratoristi della casa di riposo suonano sgangheratamente i loro strumenti con una gioia incontenibile, tra di loro borbottano e ridacchiano. Chiudendo gli occhi pareva quasi di essere in qualche ritrovo satanico in mezzo alla foresta, non c’era contegno in quelle risa, né filtri a quelle parole, una libertà demoniaca che inquietava e incantava allo stesso tempo. Pecorini salta come un grillo tra gli attori, apre le pagine del copione e segna loro col dito cosa devono leggere. Il testo di Macbeth viene declamato con spontanea maestosità, mentre quando gli interpreti interagiscono fra di loro ecco che l’ora-e-l’adesso ubriacano Shakespeare di un’urgenza briccona. Per esempio c’è un momento in cui Pecorini spiega la scena che dovranno recitare Banquo e Macbeth e quest’ultimo, in un moto d’impeto, si lancia per errore nel monologo successivo sguainando il coltello! Banquo, irreprensibile, lo manda gentilmente a quel paese, pur consapevole del proprio destino questo non lo fermerà dal godersi il potere che esercita su Macbeth, almeno finché non lo vorrà la sceneggiatura. Banquo nelle sue improvvisazioni emerge come una vera forza della natura, non si rassegna al suo ruolo di fantasma («Sono un fantasma che vive!»), ma anzi lo assolve con un certo entusiasmo, canzonando spesso il pubblico: «E provatela anche voi ogni tanto la vita di fantasma!».

C’è anche spazio per un testo non improvvisato ma comunque originale, come lo spezzone del programma di cucina: “Strega Comanda Sapore”. Di sottofondo un tema all’organo suonato da Tommaso Ferrini (che segue l’intera pièce non solo suonando ma anche recitando dal fondo scena, sempre seduto sulla sua postazione davanti alla tastiera), colorando lo spazio con una musica a metà tra un programma con Antonella Clerici e La Famiglia Addams. Intanto le streghe si sono riunite attorno al calderone e ci buttano dentro di tutto: «Per fare questo gâteau ci manca il gatto! Toccherà fare la ricetta vegetariana!» e giù ali di pipistrello, code di rospo e pure uno scaracchio («Che così s’insapora pe’ davvero!»), a conclusione di questo empio rituale ci vengono serviti dei veri e propri bocconcini di gâteau mentre la scena si risistema, tra diserzioni, scambi di posto e inciampi tecnici che nulla possono contro l’irresistibile vitalità dello spettacolo.

(foto di Paolo Lauri)

Tra i problemi più eclatanti il tamburello posto in alto tenuto strenuamente dal filo rosso. C’è un momento in cui questo tamburello scende a altezza uomo e Macbeth, con spietata violenza, lo colpisce col coltello facendolo cadere. Mi pareva evidente che quel gesto riassumesse in sé un’allegoria che descriveva l’uccisone di Banquo per via dei sicari di Macbeth. E invece l’idea originale di Pecorini (molto bella visivamente) era quella di avvicinare o allontanare la corona dalla testa dei vari personaggi ogni volta che si presentassero sul proscenio. Eppure devo dire quel gesto spontaneo, avvenuto al momento giusto, metteva comunque un punto esclamativo indelebile sul peccato di Macbeth, che lo perseguiterà visivamente per il resto della pièce. E proprio la genuinità con cui l’azione è stata compiuta e il totale controllo della scena non lasciavano intendere che nulla fosse casuale, come in una rodata compagnia teatrale le cui suole sono consumate dai tanti palchi solcati.

Il gioco di luci impiegato ha costruito le scene in modo sempre intellegibile, donando a ognuna un’attenzione diversa, i monologhi erano cupi e intensi, mentre i dialoghi dove Pecorini faceva da pacere illuminati e divertenti, il fondo scena quasi sempre chiuso e scuro quando verso la fine inaspettatamente si apre scoprendo un lungo tavolo da pranzo (non un solo centimetro dello spazio disponibile non ha vissuto un momento drammaturgicamente rilevante). Nella scena in cui si riuniscono gli attori per l’apparizione di Banquo proprio sul tavolo scoperto in profondità, una luce laterale taglia la scena come un graffio espressionista, un accento così forte da sembrare una messa in scena di Adolphe Appia. Di Macbeth in totale ne abbiamo visti ben tre, strabordandi e sornioni, di Lady Macbeth invece soltanto una, brillante interprete ottantanovenne che ha recitato con un trasporto che faceva tremare la sua voce e i nostri polsi. Oltre ai laboratoristi hanno partecipato all’allestimento anche gli operatori della struttura Laura Biagioli, Raffaella Bravi, Chiara Curatolo, Cristian Misuri e l’attore Alessio Biblioteca, anche loro parte integrante del grande concerto condotto da Pecorini, personaggi secondari che raccordavano con precisione momenti fondamentali per il dispiegamento delle vicende, riuscendo a imprimere una intenzione che sfociava anche in uso della corporeità sorprendentemente consapevole nella sua essenzialità espressiva.

Un delirio, una febbre, uno spettacolo in cui il regista pur consapevole del rischio di disastro dietro ogni singolo momento non solo non ne ha avuto timore, ma sapeva perfettamente come abbracciarlo per riportalo a una verosimiglianza di ordine (che poi è proprio l’azione di sintesi del teatro nei confronti della realtà). L’autoironia di Banquo, lo spaesamento d(e)i Macbeth, l’intensità drammatica di Lady Macbeth, l’anarchia che serpeggiava nel suo corpo di attori, erano tutti elementi portanti senza il quale lo spettacolo sarebbe stato un flop assoluto. Senza cercare nemmeno per sbaglio di fare teatro sociale, civico o quale altra forma derivata dal contesto non teatrale in cui ha operato, Pecorini ha tentato col massimo della serietà (e quindi della follia) di allestire un Macbeth senza compromessi. Il fatto che fosse messo in scena in una RSA invece che alla Pergola per lui non ha fatto alcuna differenza, e a dirla tutta nemmeno a noi.

Esco e vado alla fermata del bus, prendendomi freddo quanto basta per un raffreddore imponente. Così come in un teatro-strettamente-detto anche qui c’è un prima e un dopo, c’è un luogo che non è teatro ma lo diventa perché uno spettacolo ne ha delimitato i confini e non una struttura. Alla fine lo spettacolo più bello del 2023 l’ho visto in una casa di cura. È proprio vero allora quello che dicono in molti, che il teatro è in dismissione, anzi, è già dismesso: ora si sta godendo il suo meritato riposo.

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.