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L’oscura bellezza. Sasha Waltz tra passato e presente

di Lucia Oliva

Tellurica e poetica, oscura e lieve, emozionale e lirica, la danza della coreografa tedesca Sasha Waltz torna in Italia con Continu, monumentale creazione in scena al Teatro Valli di Reggio Emilia nel contesto del festival Aperto 2013.
Ventitrè danzatori imprigionati nella scatola nera del teatro, come in una stanza senza vie di fuga realizzata in moduli quadrati di quella che sembra bachelite nera. Scura e misterica come la notte, l’apertura, strepitosa, è affidata a sei danzatrici. Sulla partitura per percussioni di Xenakis, qui realizzata dal vivo, la scena sembra raccontare una storia segreta, indicibile, ancestrale, fatta di battiti e scuotimenti, di onde morbide e di cesure aguzze. La danza ha inaspettatamente echi grahamiani, anche se impalpabili come ombre e le danzatrici si trasformano da sacerdotesse di antichi riti in creature sensuose che dividono un unico respiro.
E ombrosa appare anche l’atmosfera del primo atto di Continu: introdotto da un infrangersi sonoro di vetri e metallo, si dipana seguendo le ombreggiature e i moti violenti della sinfonia Arcana di Varèse. Il palco si popola allora di una massa amorfa che procede con un’andatura animale. Tutta la coreografia è attraversata da una irriducibile dialettica tra l’individuo e il gruppo, inteso come forza normalizzatrice e brulicante che succhia ogni energia per poi risputarla in molecole umane perdute e meravigliose, subito riassorbite nel movimento corale. La danza si coagula in gruppi, in duetti e in qualche assolo che si staglia sul fondale della massa. Sorge spesso una memoria bauschiana, in particolare della Sagra, nella sottolineatura delle braccia, nella ferocia della scelta, nella contrapposizione tra il singolo e il gruppo. In Waltz però ogni “eletta” è autoproclamata, e non c’è possibilità di soluzione, neanche con la cruenza di un sacrificio. Al contrario tutto l’ensemble sembra percorso da un inesauribile istinto di fuga, sempre impossibile, che rotola sulle pareti lisce prive di appigli.
Se il disegno coreografico e drammaturgico è angosciante, la bellezza della qualità di questa danza è invece in grado di lenire ogni asperità, sottolineandone paradossalmente la levità. I corpi sono fluidi e duttili e si muovono come acqua, ma con la precisione ordinata di un meccanismo unico, capace di trasformarsi in un attimo da aguzzino tagliente in abbraccio morbido. Piegati come alberi nella tempesta, si sbalzano sui paesaggi musicali, per poi divenire onde infinite, vortici e abissi. Sul finire, una fila unica di danzatori, un giudizio inappellabile: mentre una voce spara dei colpi, a uno a uno crollano in questa fucilazione. Ma con la resistenza del singolo, l’ultimo si rifiuta di morire e corre tra i corpi rimasti a terra.

Waltz racconta che lo spettacolo è nato attingendo alle esperienze del Neues Museum di Berlino e del Maxxi di Roma, dove in anni passati l’artista tedesca ha presentato due interventi coreografici site-specific. Ecco allora tornare in Continu le celebri “passeggiate sul muro” e le fughe circolari in una corsa da topi di laboratorio, più una miriade di suggestioni, idee di movimento e figure prelevate da quelle situazioni. Ma Continu cuce tutto in un amalgama che si rivela seguendo la struttura musicale, respirando a tratti nel silenzio. Così, dopo l’oscurità del primo atto, arriva la lattiginosa luminosità del secondo, quieta, intima, tutta giocata su toni chiari, che disegna lo spazio sulle note dell’Adagio del quartetto per oboe di Mozart. Una costellazione di corpi raggrumati a piccoli gruppi su un tappeto bianco, una figurina sola appoggiata a un equilibrio impossibile, membra contorte in spasmi quasi baconiani, la danza si srotola e si cheta su un tappeto bianco dove i corpi tracciano calligrafie.
Uno spettacolo capace di angoscia e dolcezza, con una spinta primigenia che batte sotto l’addomesticamento tecnico, con una danza che attraversa il secolo coreutico secondo la linea di fuga più fluida, à la Trisha Brown, irrobustendosi però degli ultimi trent’anni di danza contemporanea. Un soffio spaziale poetico e lirico che solo a tratti cede e mostra la costruzione, il manufatto artistico, forse covando una volontà celebrativa dopo una tale carriera. Ecco allora il profluvio di materiale, l’ampiezza sinfonica della creazione, la sua vena tematica dalla portata ancestrale.
Poi un’ultima corsa sotto il tappeto bianco mette a tacere ogni cosa, svuotando la scena. Come una coltre sarà questo candore a pacificare tutto, addormentando la danza sotto il suo abbraccio.

(foto di Sebastian Bolesch)

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