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L'inferno umano secondo Viganò. Un attraversamento de "Il ballo"

di Altre Velocità

Un gesso stride polveri bianche su muri di carta spogli, prigione di un eterno ritorno dell’uguale. L’umano demiurgo accoglie con cinismo tre donne e cinque uomini seminudi in uno strano inferno, una cupa ma semplice stanza, donando loro dei sacchi bianchi colmi di una manciata di vestiti colorati e piuttosto comuni. Giacche, pantaloni, abiti da donna, cinte, scarpe, calzini, camicie che stabiliscono un’identità particolare per ciascuno: un ladro, una narcisista, un pugile e così via. È in questo modo che, secondo Antonio Viganò, si dà avvio alla giostra dolorosa della vita in Il Ballo, pièce in scena al DAMSLab/La Soffitta di Bologna lo scorso 12 febbraio come seconda tappa del progetto “Corpi eretici. Il teatro di Antonio Viganò”, squisitamente interpretato dall’insolito cast del “Teatro la Ribalta- Kunst Der Vielfalt” di Bolzano.
Il regista calibra, in armonia con le coreografie di Julie Anne Stanzak, ogni singolo movimento ripetitivo, oserei dire ossessivo, messo in scena. Ogni attore ne ha uno e ogni performance presa singolarmente mostra ripetutamente delle azioni semplici che finiscono per intrecciarsi tra loro in un orchestrale presa di significato: ad esempio un uomo innamorato entra con dei fiori, china la testa ed esce deluso mentre, in un secondo momento, una donna entra sul palco, si passa il rossetto sulle labbra e si allontana aggiustandosi la scarpa. Col passare dei minuti le due azioni confluiscono e scopriamo allora che l’uomo in questione si relazionava alla donna narcisisticamente presa da se stessa e, sentendosi respinto, usciva col cuore spezzato.
Un ballo, metafora del quotidiano inferno senza uscita in cui viviamo. Niente fiamme, né gogna, un solo boia: gli altri. Vie d’uscita? Forse nessuna, ma non mancheranno maldestri tentativi, opportunamente messi a tacere, di folli uomini e donne in cerca di un “batter d’occhio” di riposo, così viene chiamato in scena, ormai stanchi della condanna all’omogeneizzazione umana: qualcuno si toglie il busto, qualcun altro cerca di saltare al di là dei muri della stanza, ma nessuno può fuggire dall’infernale palco della vita.
L’affermazione “L’inferno sono gli altri”, citando Jean-Paul Sartre e il suo dramma A porte chiuse, campeggia in ogni performance di un cast di qualità che innalza il gesto a espressione della propria intima anima, carica di voglia di esplorare le più recondite inclinazioni umane del teatro e della vita. Un gesto mai banale che a tratti diviene tribale. Gli attori, infatti, al tentativo di fuga di uno dei partecipanti al ballo, iniziano una sorta di danza rituale: in gruppo puntano il dito, scuotono le braccia con forza intensificando man mano la respirazione come bestie che cercano di intimorire ed emarginare il diverso. Antropologicamente è come se la performance volesse ricordarci le origini primitive che tutti ci accomunano, come a ricordarci: questi siamo noi, ma questi siete anche voi.
“Siamo tutti uguali”: questo sembra essere il messaggio indiretto della compagnia, composta da persone in situazione di “disabilità” o “disagio psichico”, ma che rifiuta ogni categoria di “diversità” e ogni “indulgenza” dal punto di vista professionale. Non è un caso che Il ballo sia il loro manifesto poetico, uno spettacolo per gli occhi frutto di una sintonia invidiabile tra attori di eccezionale presenza scenica e ogni elemento della messa in scena capaci di amalgamarsi in un’atmosfera ogni minuto emotivamente più martellante. Il ballo racchiude in sé ciò che ognuno di noi vive ogni singolo giorno, etichettati in molti modi che non ci rappresentano, schiavi di giudizi superficiali di masse esecutrici ignare della vera natura degli imputati.
Ultima nota è sul lavoro di scrittura, regia e performance che abbraccia ogni orizzonte artistico. Infatti, non è influenzato solo dal teatro, di cui è esplicito il tema della maschera pirandelliana che un personaggio indossa in funzione di un adeguamento ad un contesto sociale, ma troviamo un riferimento al cinema avanguardistico degli anni Ottanta, con Tango di Zbigniew Rybczynski, e l’ossessiva ripetizione di azioni semplici che nel loro insieme sono precise e strutturalmente orchestrate. Infine, è la danza a invadere il palco: parte integrante del lavoro della compagnia teatrale, è intesa come libera espressione artistica della profondità umana più che catarsi da una situazione stigmatizzata, situazione che giornalmente questi attori professionisti subiscono sulla propria pelle.
Una rappresentazione breve, 60 minuti, ma carica di emotività, come d’altronde è la vita. Una compagnia sicuramente da vedere per spogliarsi dalle catene dei pregiudizi culturali godendo della bellezza di una vita sciolta da preconcetti che ridimensiona la follia a libera espressione del genere umano.

Roberto Romano

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