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L'impossibilità dell'indifferenza. L'abisso di Davide Enia

di Altre Velocità

Due sedie, un musicista, un attore. Così si presenta la scena nella sala Thierry Salomon dell’Arena del Sole per L’Abisso, spettacolo di teatro di narrazione tratto dal romanzo Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017). Davide Enia attore-autore, insieme a Giulio Barocchieri alla chitarra, narra il grande tema che, sfibrato e mistificato dalla comunicazione contemporanea, prende il nome di “invasione”.

Il termine vandalo “invasione” non viene nominato nello spettacolo. Lo spettatore tesse il filo e collega la riflessione dipinta da Enia, tramite gli incontri che ha vissuto in prima persona a Lampedusa, con la questione migratoria che, da più di vent’anni, annega in scontri ideologici che guardano ciechi ai corpi che arrivano dal mare come merci indesiderate. La tematica viene affrontata non nei termini di uno scontro politico ma come riflessione sociale e umana.

Lo spettacolo si svolge prevalentemente sulla sedia che l’attore, trattenendo il gesto nell’atto di sedersi, calca con tensione, sfinito dal racconto di un’esperienza inenarrabile. Le uniche azioni fisiche sono gesti, compiuti perlopiù con mani e braccia, semplici ma evocativi, a dipingere l’ambiente e i personaggi-persona che l’attore ha incontrato nel corso di quello che prende le sembianze di un vero e proprio pellegrinaggio. Una scenografia evocativa, quella di Enia, che tesse e spezza ricordi, immagini e immaginari.

La musica, gridata e cantata, che nelle tonalità ricorda il folklore siciliano, suggella le immagini già richiamate dai gesti. Le grida accompagnano alcuni momenti e prendono il suono di voci confuse, sovrapposte, indistinguibili, come quelle degli uomini-pesci che in mare, in punto di morte, gridano il proprio nome nella speranza che la notizia della morte venga comunicata ai parenti.

Il testo drammaturgico è saldato indissolubilmente alla vita personale di Enia che, a contatto diretto con l’esperienza migratoria, non può far a meno di associare i propri traumi – dal rapporto con il padre, siciliano tutto d’un pezzo ineducato a esprimere i propri sentimenti, alla malattia dello zio che, incessante, scandisce e amplifica il sentimento di morte alla base dello spettacolo – a quelli dei profughi del mare. Creando un ponte tra noi e loro, semplice e efficace, azzera le differenze senza ricorrere al patetico.

Una domanda rimbomba, nella sua semplicità assordante, per tutto lo spettacolo: che cosa posso fare? Davanti alla morte, davanti alle testimonianze dei rescue swimmers della guardia costiera (che Enia ha consultato in prima persona) l’attore non sa come comportarsi. Questa domanda, semplice ma diretta, tocca corde della coscienza esposte che tendiamo a coprire, e che la stessa comunicazione mediatica occulta, utilizzando linguaggi mascherati, frasi fatte e paroloni. La verità, l’esperienza diretta, vengono sacrificate a favore di qualcosa di più consumabile, meno sconvolgente, meno anarchico.

In linea con la tradizione del teatro di narrazione, la drammaturgia si sovrappone al dialogo con lo spettatore a cui Enia, indirettamente, si rivolge continuamente, non distogliendo lo sguardo dalla platea. Lo spettatore come secondo attore (terzo se si conta il musicista) incarna il silenzio della consapevolezza disarmata, tipica della nostra società individualista. Un attore muto che rompe la logica dialogica e nel farlo aumenta la consapevolezza delle parole pronunciate.

Il mezzo teatrale fa rifulgere, in questo spettacolo, la sua stessa essenza: l’efficacia del messaggio, proprio a causa della materia reale di cui si sta parlando, può esistere solo nell’esperienza diretta del corpo e della voce dell’attore, nella relazione che intercorre tra pubblico e interprete che, non filtrata, nell’atto stesso di testimoniare, consegna indissolubilmente un fardello impossibile da dimenticare.

Francesca Lombardi

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