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"Li Buffoni" di Nanni Garella, una commedia degli errori

di Altre Velocità

«Uomini e donne tutti tristi, quando le famiglie lontane: si ricordano tempi felici»

Questo è l’epilogo di una commedia tragica, sottile ma diretta. La summa di uno spettacolo che lascia l’amaro in bocca, celato da un sorriso che nasconde la sgradita sensazione di partecipare a quella che, in realtà, è una tragedia, odierna e di tutti. È una riflessione prolungata sulla solitudine e l’inadeguatezza, intervallata da sonori interventi di sapore popolare e nostrano. È Li Buffoni di Nanni Garella, in scena all’Arena del Sole dal 20 febbraio al 4 marzo 2018, che ha visto la partecipazione della compagnia di prosa dell’associazione Arte e Salute ONLUS. Una collaborazione nata nel 2000 con lo spettacolo Sogno di una notte di mezza estate di W. Shakespeare, che crede nel potere benefico dell’arte teatrale su pazienti con problemi di natura psichica. Nanni Garella e la sua compagnia sono testimonianza viva che il progetto regionale “Teatro e Salute Mentale” rimane una scommessa ben riuscita cui la Fondazione ERT, a capo del Teatro dell’Arena del Sole dal 2014, non vuole rinunciare. Una scommessa che ha portato un importante regista di fama nazionale a mescolare attori professionisti e pazienti con forza d’animo e spirito giusto. Quella de Li Buffoni è una storia che nasce dalla Commedia d’Arte seicentesca, è il titolo di quell’opera ridicola messa a punto da Margherita Costa, attrice e cortigiana romana, dapprima come improvvisazione e poi trascritta. È una commedia povera di trama ma ricca di abilità nel creare uno straordinario calderone di caratteri differenti. Con la riscrittura di Garella si abbandonano le corti e si viene catapultati nell’era contemporanea, in una delle tante baraccopoli odierne che intrecciano vecchio e nuovo, l’arte dell’arrangiarsi e fatiscenza, il tratto nostrano e quello straniero. Nessun edificio aggraziato, nessun giardino curato, nessuna legge statale: vige la regola del clan. La scena è povera: baracche di ferro ammassate, gommoni sparsi, elettrodomestici in disuso al posto di panchine, finestre piccole come la possibilità di sperare in un futuro diverso. La trama si disegna all’interno della cerchia rispondente a Romeo, il Califfo, malavitoso d’origine pugliese la cui volontà si traduce in ordine. Sua moglie, marocchina di Fès e soprannominata “Fessa”, è prigioniera di un matrimonio che rinnega, “che la offende come donna e come moglie”. Tutto ha inizio, dunque, da una comune lite coniugale e da una prostata mal funzionante. L’intreccio continua attraverso sotterfugi e tentati inganni, si alternano sketch cantati, si susseguono vari personaggi, ognuno portavoce di una differente sfumatura linguistica e di una storia mai raccontata. Una vera e propria commedia degli errori, o degli equivoci, dove l’ubbidienza è terrore, la pedanteria di una moglie è solo un tentativo di richiamare a sé attenzione e affetto, la spavalderia è ironica apparenza, l’arte dell’intrattenimento un vacuo modo di regalarsi compagnia e calore. La tragedia è nel mezzo: nell’agglomerato di persone che non si sono scelte ma si trovano costrette a convivere e, per sopravvivere, assumono ciascuna un ruolo che si adegui al meglio alla propria indole. Un ruolo che è gabbia e sicurezza; fedeltà a se stessi e limite. Un ruolo che, per tutti i membri del clan, viene messo in discussione dall’atto finale, quello animalesco e primordiale dell’omicidio. Il bello? Nell’espressione del proprio io, della propria origine mai persa o dimenticata. Nella mezzana dal sibilante accento bolognese; nella donna russa, amante di mestiere; negli scagnozzi del Califfo che rimbalzano tra il croato, l’albanese e il turco; in Tedeschino, saltimbanco di quartiere e ruspante anima napoletana; nello zingaro spagnolo che si scoprirà non essere altri che il fratello di Fessa rapito anni prima; in tutti quei personaggi che sporcano il corretto corso della lingua, arricchendone il repertorio. Loro sono le versioni italianate di ciascuna differenza linguistica, sono il risultato di una lingua che, cassa di risonanza in potenza, accoglie e tenta di manifestare gli spaccati storici dei parlanti. Il talento dello spettacolo emerge dalla bravura di ciascun attore nell’abbracciare una tradizione diversa rendendola propria attraverso gesti e dizione, nel dimenticare i propri limiti, seppure di natura psichica, fino a superarne le barriere, nell’accostarsi al proprio personaggio tanto da riuscire a mischiare recitazione e naturalezza. È questo, il più alto atto di creatività.

Pamela Valerio

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