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Le maschere della dittatura. "La mia battaglia" di Elio Germano

di Altre Velocità

Qual è il problema che affligge il nostro momento storico? La preoccupazione per l’esteriorità.

Fin dalle prime battute di La mia battaglia Elio Germano mette in chiaro questo punto, fulcro e tassello iniziale dell’intera messa in scena. L’attore dialoga con noi spettatori, ci interroga, ci coinvolge, ci fa sentire parte integrante dello spettacolo, creando man mano senso di appartenenza a uno stesso gruppo; ci elogia facendoci sentire diversi da quella “massa” che nello stesso momento è distesa sul proprio divano.

D’un tratto però ci ritroviamo tutti su di un’isola deserta. Alla maniera di Hobbes, Rosseau, Locke, la metafora prende vita. Come verrebbero divisi i compiti tra i naufraghi? Chi si occuperebbe di cucinare, chi di pescare, chi di cacciare? Si arriva addirittura a compiere una votazione. La parola “competenze” viene ripetuta come un mantra. Chi sarà il più idoneo a ricoprire un incarico tra i sopravvissuti? Chi è stato votato dalla maggioranza o chi possiede queste fantomatiche competenze? Che valenza ha la maggioranza?

Il tono, i termini utilizzati divengono sempre più incalzanti, il dialogo con il pubblico si interrompe trasformandosi in monologo. Una nuova identità si sta costruendo. Viene sottolineato il valore di essere italiani, la necessità di difendere la propria identità, di prendere le distanze dall’altro, dallo straniero che impoverisce culturalmente ed economicamente la nazione. Le luci in sala si abbassano, non si parla ma si urla, un esercito in marcia, proveniente dal fondo della sala si dirige verso il palcoscenico, i loro piedi si muovono allo stesso ritmo, essi guardano fissi davanti a loro, guardano Elio Germano, il “motivatore” che è ormai salito su di un piedistallo e controlla orgoglioso la sua piccola guarnigione. La tensione è cresciuta fino a raggiungere il suo culmine con l’apparizione della bandiera del partito nazista.

Difficile analizzare lucidamente questo spettacolo che potrebbe essere definito, per certi aspetti, un esperimento sociale. Ciò che si cerca di analizzare è il modo in cui il pubblico reagisce agli impulsi dell’attore, come risponde al succedersi di parole, gesti, richieste. Il meccanismo che troviamo alla base è lo stesso che anima la trama de L’Onda (Denni Gansel, 2008). Nel film, un docente di storia si trova a dover spiegare alla sua classe il tema della dittatura, sottopone così i suoi studenti a un esperimento al fine di dimostrare quanto facilmente si possano manipolare le masse. Il tutto sfugge di mano,un vero e proprio gruppo con il suo linguaggio ed i suoi simboli darà vita ad episodi di violenza e sottomissione.

Si passa dalla creazione di un gruppo che vuole reagire alle ingiustizie del momento in cui vive, fino alla formazione di un unico corpo guidato da un capo carismatico, di un microcosmo con i propri simboli e il proprio linguaggio, che vorrebbe escludere tutto il resto e controllarlo. Attraverso quali mosse si afferma una dittatura? Quale il limite tra autorevolezza e autorità? I confini sono labili.

Un modo per mostrare come il passato non sia qualcosa di finito e depositato in una capsula del tempo. Inevitabile e immediato è, infatti, il confronto con l’oggi, il rimando alle personalità che reggono le fila del nostro Paese. Elio Germano con il suo La mia battaglia, per la drammaturgia di Chiara Lagani di Fanny & Alexander (in tedesco suona Mein Kampf), andato in scena presso il teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno il 5 e 6 Marzo, ha saputo tenere con il fiato sospeso la sala, lasciando un senso di ansia e allarme. Dal populismo al totalitarismo, il passo è breve.

Marcella Pagliarulo

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