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foto di Piero Tauro
foto di Piero Tauro

Le increspature del mito di “Penelope”

di Francesco Brusa

Non solo dentro un’unica biografia, ma dentro un breve lasso di tempo – una piccola pausa della (o dalla) esistenza, dilatata però all’infinito grazie al ritmo scenico – può starci l’Odissea. È il principio che sottende l’allestimento di Penelope a cura della drammaturga e regista Martina Badiluzzi, che ha debuttato al Romaeuropa Festival e che costituisce la seconda tappa di una trilogia dopo The Making of Anastasia. La coralità propria del poema omerico, con la sua diramazione di molteplici trame e di molteplici personaggi, il respiro onnicomprensivo dell’epopea, ad abbracciare eventi che coprono diversi anni e decenni, vengono infatti convogliati dentro un solo corpo sul palco – quello dell’esuberante attrice Federica Carruba Toscano – e dentro un solo e ininterrotto flusso di parole, un monologo policromatico che avvinghia in sé differenti voci e situazioni in una sorta di matrioska drammaturgica.

Così, anche l’avvicendamento di immagini e scenari che caratterizza il nostos di Ulisse viene assorbito da un “nero-oceano” che inghiotte tutto il palco, “solcato” unicamente da fasci di luce che ricordano quelle dei fari per la navigazione marittima e da rumori di sottofondo che compongono suggestive discrasie sonore. Un gruppo di ventilatori a piantana, di diversa altezza, costituisce il solo oggetto di scena assieme alla poltrona su cui siede, si sdraia, sbraccia e agisce l’attrice. È lei Penelope, anzi una novella penelope con la “p” minuscola come si trattasse di un nome comune o un aggettivo, che attende di rincontrare un uomo dopo tanto tempo presso la terrazza di un ristorante sul mare. Si tratta, appunto, di un quadretto di vita prosaico, quasi caricaturale, a ricordarci come è la nostra stessa quotidianità a essere “solcata” dal mito e dall’epica che descrivono infatti archetipi “pronti all’uso”, se così lo si vuole. Anche il dialogo tratteggiato da Carruba Toscano, che assomma nella sua recitazione la voce di tutti i personaggi nonché quella del narratore onnisciente, è prosaico, anzi comico: si scherza sulle aspettative disattese, sugli anni che modificano e invecchiano il fisico, sull’imbarazzo per un rincontro non del tutto programmato e su una “triangolazione dello sguardo” che coinvolge, oltre a Penelope e il suo compagno, anche il cameriere del posto.

Ma questo, come accennato, è solo un primo livello della narrazione. Anzi, è solo una sorta di “superficie allusiva” che consente quasi subito di scivolare in tutt’altra atmosfera e in tutt’altra costruzione scenica. Parole immagini stimoli cui la protagonista si trova di fronte richiamano altri stimoli immagini parole: altri ricordi, talvolta, che provengono dalla memoria e dall’inconscio ma anche da una differente “tonalità teatrale” che ora vira verso il grottesco, ora si fa maggiormente psicologica oppure nitida e realistica. Nell’evocare i propri amici d’infanzia, sua madre e suo padre, relazioni passate, Penelope diventa Circe, acceca Polifemo o si lega a un palo come Ulisse con le Sirene trasfigurando però l’episodio omerico in una danza sensuale. Il tutto mentre la storia si apre e deflagra in un gioco di sottotrame, in rivoli di suggestioni e metonimie, in una riflessione e in uno scavo su di sé che però viene agito ed esperito attraverso il testo e non propriamente verbalizzato, come succederebbe nel caso si trattasse di un personaggio in senso più “classico”. Al contrario, Carruba Toscano – con una precisione recitativa che riesce però a essere anche calda e coinvolgente, per nulla algida – incarna una personalità ondivaga e ambigua, utilizzando il nome di Penelope come un “calco” per imprevedibili accelerazioni d’immaginario, che sul palco, invece di disfarsi e decostruirsi, si fa in relazione alla drammaturgia. Allo stesso tempo, è la drammaturgia stessa che si costruisce e si sviluppa in relazione alla forte presenza dell’attrice, assecondandone i ritmi recitativi e seguendone i cambi di umore e di maschera, rendendola veicolo fisico del senso ultimo dello spettacolo.

Non è dunque una riscrittura nell’accezione più facile del termine. Non è il punto di vista di Penelope, ma Penelope come (possibile) punto di vista. Sul poema omerico, sul mondo di oggi, su una femminilità narrata e immaginata dall’universo maschile ma anche talvolta concreta e sociale, comune. Il “nero-oceano” del teatro, al chiaro di un faro, rivela le sue mille increspature.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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