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Le immagini perdute. “John Doe” di gruppo nanou

di Lorenzo Donati

Occupa il centro dello della scena, i corpi non possono che attraversarla e sostare sotto la sua superficie, o aggirarla passando sul fondo. La sua conformazione attrae lo sguardo, anche in assenza di presenze umane, come se stesse lì per evidenziare lo spazio. È una struttura metallica quadrata, composta da quattro archi rettangolari che si congiungono. Sotto alle sue volte, al centro, sta una poltroncina rossa. Sembra la metonimia di una grande voliera o di un gazebo, oppure semplicemente è un vistoso oggetto di interior design. Dal buio appare una donna (Rhuena Bracci) con un abito dal sapore retrò, si muove assecondando uno swing di piroette, il corpo gira, salta e piega gli arti inferiori seguendo una rotazione circolare. Luci verdi soffuse e fredde. Fa il suo ingresso una coppia di ragazze che si muove sincronicamente: passi laterali, molleggiamenti sulle gambe, ondeggiamenti del bacino accompagnati da braccia e mani che si sollevano per poi congiungersi dietro la nuca. Luci rosso vivo. Dietro la gabbia si svela una soglia diafana che dà accesso allo stesso luogo di partenza, un “portale” di fili bianchi che scendono dall’alto e lasciano intravedere il fondale scuro. Transizione verso luci bianche glaciali. Ma il colore del set scaturisce soprattutto dal suono, composto da Roberto Rettura: un fruscio disturbato diviene percussivo felpato, preludio a una melodia portata da accordi ripetuti di chitarra elettrica, e immediatamente ciò che vediamo ha il sapore della perdita, dell’immagine che sfugge. Ci assale un non so che di malinconia per fraseggi che sentiamo di non potere afferrare, o fermare. E, in effetti, la sintassi di John Doe di gruppo nanou punta proprio a sospendere l’ordito, partendo dal nome dello spettacolo, l’appellativo attribuito nel gergo giuridico statunitense quando non si può o non si deve risalire all’identità di un uomo. La donna dell’inizio ora si muove dal fondo verso il proscenio attraverso un lento e obliquo rotolamento a terra, una quarta ragazza in abiti da uomo esibisce una sequenza di gesti frontali, ora irosi e spigolosi, utilizzando la poltrona come asse del suo percorso, ora descrivendo traiettorie più quotidiane, come fossero l’inizio o la fine di azioni casalinghe.

Nel precedente progetto Dancing Hall (2013) s’indagavano i confini di un movimento legato ai balli di sala, lasciando che fossero i danzatori (uomini) a promuovere il discorso, inseguendo fugaci apparizioni femminili. L’inizio di questa nuova progettualità, dopo i meandri mentali fra ossessioni poetiche e indizi narrativi del progetto Strettamente Confidenziale (2014), crea un universo di elusione e seduzione incarnato solo da danzatrici, eppure sottilmente filtrato da uno sguardo maschile (il nostro e quello del coreografo Marco Valerio Amico, che questa volta non danza). Una relazione che si manifesta necessariamente attraverso l’assenza dell’altro, e viceversa?

A un dato momento il suono cambia connotati. Tace e riprende con cadenze sorde di corde di chitarra, come fossero senza cassa armonica. Poi il tessuto si spande, il riverbero di note sovrapposte aumenta diventando quasi ambiente sonoro, gli iniziali presagi di oscurità si trasformano in ondate di note continue. È il momento in cui, e siamo nella seconda parte dello spettacolo, i fraseggi delle danzatrici vengono a sovrapporsi sulla scena, si intersecano aumentando di ritmo, si alternano fra primo e secondo piano in un paesaggio di stratificazioni luminose, sonore, spaziali. Le gambe si flettono e si stendono diritte con i fianchi adagiati sulla poltroncina, si accennano verticali e “ruote”; il tronco s’inarca e si mostra girato di schiena, avanzando lentamente, celando il volto. Salgono dei lievi rintocchi come di campane tibetane.

Da Motel in avanti (2008/2011) il gruppo di Ravenna ha adottato una maniera di procedere per progetti, suddividendo l’opera in molteplici occorrenze fra loro anche linguisticamente differenti. Qui ci troviamo divisi fra fascinazione della perdita e disappunto per l’incompiuto, con immagini che ci scorrono di fronte ma sembrano provenire da un passato che non siamo in grado di ricostruire. Ma tale indecisione potremmo rivolgerla alle nostre stesse aspettative: dal momento che anche J.D. è una progettualità destinata a comporsi di diverse occorrenze, andremo in cerca della chiusura di un arco narrativo, come in una saga, o propenderemo piuttosto verso la sospensione e la dilatazione, come in un serial?

[continua…]

foto di Federico Fiori, Francesca Lenzi

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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