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L’autofinzione teatrale. “Reality” di Deflorian/Tagliarini

di Lorenzo Donati

Scrivere e vivere sono due estremi della stessa corda. Due risposte differenti ma ugualmente buone alla stessa domanda. E perciò devi scegliere di usarne solo una per volta, non le puoi usare insieme. Però puoi usarne una per amministrare l’altra e muoverti nel trascorso scomposto e lacerato.
Sandro Bonvissuto, 
Dentro


Mentre entriamo ci attendono seduti su un lato del palcoscenico vuoto. Vicino a loro un tavolo e una poltroncina. Si abbassano le luci, si guardano: «Andiamo?».
Occorre prestare attenzione ai primi secondi di Reality di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, perché lì si cela un andamento che attraverserà tutta l’opera, e che ha percorso il loro lavoro negli ultimi anni. Nel 2008 la loro collaborazione era partita con Rewind, un omaggio didattico/emozionale al capolavoro del teatro danza del novecento, quel Café Müller di Pina Bausch che i due avevano rievocato, discusso, reintepretato sulla scena con il timore trasognato di chi guarda al lavoro di un maestro. Il percorso è proseguito poi con uno spettacolo dedicato ad Andy Warhol (From a to d and back again, 2010) e mostra ora l’esito di un progetto pluriennale dedicato alla figura di Janina Turek, donna “comune” polacca che ha passato la vita a tenere diari in cui registrava ogni minimo accadimento quotidiano (menù di pranzi, persone incontrate, regali ricevuti ecc.). Sono quei primi secondi a diventare “discorso”, perché il danzatore e l’attrice sembrano non recitare. Detto più precisamente, Tagliarini e Deflorian intepretano loro stessi, mettendo in scena due teatranti alle prese con la traduzione performativa di uno sterminato materiale biografico.
Prima questione: come inscenare una donna colpita da un infarto? Come si cade? E quale la reazione di un passante? Con loro vediamo e misuriamo i tentativi, come fossimo dentro una sala prove. A turno uno cade e l’altra lo osserva, commentando i risultati, ridendo, consigliando. Arriva quasi subito una domanda capitale: «Come si ottiene la naturalezza, la verità?». Da ora in avanti lo spettacolo diventa un tentativo di risposta, quasi lo svolgimento di una teoria della rappresentazione in epoca di post-realtà.

748 quaderni compilati in 50 anni, raccontati nel libro di Reality di Mariusz Szczygiel: come fare divenire teatro qualcosa che pretende di descrivere la realtà oggettivamente, senza emozioni, senza commenti né interpretazioni? Tagliarini suggerisce all’attrice di darsi un compito, Deflorian fatica a “vedere” l’asfalto per strada, immagine che l’aiuterebbe a essere credibile. Si rappresentano frammenti di vita quotidiana: durante un pranzo viene sbucciato un mandarino, la poltroncina ricrea una domenica pomeriggio passata in casa di fronte alla tv. Nel dicorrere si rivolgono sempre a noi, al pubblico presente in sala, e alternano frammenti di scene ricreate, commenti, riferimenti al materiale biografico della Turek. Suo marito è stato internato in un campo ad Auschwitz e un giorno l’ha abbandonata, la sua vita si è svolta sotto la dittatura comunista, in piena scarsità di risorse e cibo, così anche un kiwi le appariva un «frutto esotico». Cosa è accaduto la mattina in cui il marito l’ha abbandonata? Ora è la Deflorian a immaginare una mattina “no”, quando ci si sveglia e tutto va male, quando la tazza della colazione viene scagliata sul muro, lasciando una macchia scura incancellabile.
Nella loro ricerca gli artisti romani a un certo punto incontrano delle cartoline, che la polacca inviava a profusione non di rado anche a se stessa. Nelle cartoline traspaiono finalmente emozioni, commenti intimi, stati d’animo. Il «progetto di descrizione della realtà» dei quaderni necessitava forse di un rovescio della medaglia, di un lato soggettivo per fare fronte al mare di oggettività: così sono le cartoline ad avere offerto lo spunto ai due creatori per costruire visioni di alcuni momenti salienti della vita della loro protagonista, cercando di colmare i buchi, i silenzi, perché, come affermano, la memoria stessa è un buco, un vuoto.
La destrutturazione dei principi di rappresentazione teatrali (la presenza di personaggi, di una mimesi scenografica ecc) è troppo spesso considerata da molti ragione sufficiente per fare un discorso, e non di rado è al centro di opere che faticano a comunicare qualcosa oltre il loro stesso linguaggio. Reality ha il merito di sgombrare il campo da tali sottolinerature, dai tratti gialli dell’evidenziatore di artisti che ancora ci tengono a far capire quale sia la loro operazione, il loro pensiero sulla performance. Per Tagliarini e Deflorian l’impossibilità di costruire personaggi, di immedesimarsi e di “recitare” sono condizioni preliminari per raccontare una storia. Eppure non rinunciano nemmeno un secondo a raccontarla, a inseguirla, come hanno inseguito le tracce della Turek fra reportage, articoli, viaggi nella città dove abitava, Cracovia, immaginando l’incontro mai avvenuto con un altro visionario, Tadeusz Kantor. Nel loro “discorso” riescono così a convivere la messa a punto di un personale linguaggio della scena con il graduale emergere di un racconto, con le sue figure (o personaggi) che si materializzano sul palco: Janina Turek, ma anche Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. E qui sta, forse, anche una delle domande aperte da porre allo spettacolo. Si esce infatti con una certa sensazione di incompiuto, come se mancasse qualcosa, come se l’aver delineato i tratti dell’ossessione di una donna comune ci abbia lasciato con una brama di saperne di più, di avere più particolari, forse anche di sapere il “perché” delle sue azioni.

Si torna a casa e si scopre un “lato b”, crediamo importante tanto quanto la visione dello spettacolo. È il diario del processo di lavoro, depositato nel blog realitydiario.tumblr.com, dove si ha l’occasione di riattraversare quanto visto. Si trova il racconto della «scoperta», avvenuta leggendo un articolo di Szczygiel una domenica in un bar romano. Ci si imbatte in molte citazioni, in frammenti che ricostruiscono dubbi, esitazioni, emozioni dei due creatori. Hilmann parla della necessità di coltivare le idee, di non metterle in pratica subito, Burroughs descrive la realtà come una possibiltà fra le tante. Si trovano riferimenti alla densa articolazione progettuale che ha preceduto lo spettacolo, come l’installazione rzeczy/cose, in cui i due creatori avevano lasciato il pubblico libero di aggirarsi fra oggetti provenienti dalla memoria della Turek e della loro (Reality ha debuttato la scorsa estate a Inequilibrio ed è stato preceduto anche da una conferenza con Jolanta Brach-Czaina e Attilio Scarpellini, e dal laboratorio/spettacolo con persone anziane Il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava). Infine si legge del viaggio in Polonia per vedere le persone vicine a Janina e le strade di Cracovia, di un matrimonio lì incontrato per caso che diviene occasione per immaginare il giorno del matrimonio della Turek,  per penetrare la coltre di elenchi in cerca di sentimenti.
Ripensando al senso di mancanza, diviene allora chiaro che ciò di cui si sentiva l’esigenza era probabilmente un affondo maggiore nei percorsi biografici dei due creatori, quelli che avrebbero potuto creare un cortocircuito più netto fra loro stessi e l’enigmatica Janina Turek. Cosa li ha spinti sulle tracce della polacca? Cosa stavano e stanno cercando? In che modo la sua ossessione assomiglia alla loro? È il diario on line a fornirci le tracce più significative, a metterci sulla strada di una autofiction nella quale le voci di Turek, Tagliarini, Deflorian si sovrappongono fino a confondersi, come quando si legge la trascrizione di un’improvvisazione dell’attrice sul tema “est”, fra nostalgia e Kieslowski, e la frase: «Come metto dentro tutti questi pezzi?». Un indizio delle molte domande di Deflorian e Tagliarini che si sovrappone a quelli che devono essere stati i tanti interrogativi della Turek, illuminandoli.
Torniamo dunque allo spettacolo. Sul finale Daria Deflorian, come a dispiegare l’esito di un lungo percorso di ricerca e inseguimento, espone alcune cifre: la Turek elenca 1922 appuntamenti fissati, 5817 regali fatti, 70.042 programmi visti in tv. Qui la sua voce s’innalza, mentre l’attrice pare tentennare. Ferma nello spazio, ora è il suo corpo a parlare con ombre di tremore, sussulti interiori appena visibili ma decisamente percepibili. Ora qualcosa di quel lato nascosto, di quegli inciampi, di quelle domande di creazione si manifesta sulla scena: quel «brivido oscuro» che hanno avvertito leggendo i 748 quaderni diviene trasalimento della presenza, ottundimento del pensiero razionale, coincidenza fra il personaggio Deflorian e l’attrice, la ricercatrice, l’artista. Ci aggrappiamo a questa emersione, a questo folgorante momento che mette in crisi il teatro, la finzione, il reportage, perché li comprende tutti, in un istante.

(foto di Silvia Gelli)

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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