altrevelocita-logo-nero

L'anima degli eventi. I "Racconti di giugno" di Pippo Delbono

di Altre Velocità

La Gioia aveva un’unica data al Teatro Ridotto – Casa delle Culture e dei Teatri con I racconti di Giugno. Bisognava prendere la macchina e fare mezz’ora di strada sotto la pioggia e i fulmini. La rassegna si intitola Emozioni? Terzo teatro, quarto, quinto o sesto: basta che nasca da emozioni, una pratica difficile ma necessaria e allora il suo punto interrogativo, che conteneva un mistero, ha rivelato in me il desiderio di conoscere e, di conseguenza, di spostarmi dal centro urbano verso via Marco Emilio Lepido, quasi fuori città. Con il termine “ridotto” si indicano abitualmente le sale di sosta e di trattenimento di un teatro dove il pubblico si raccoglie negli intervalli e nelle attese. Una sala minore, a volte accanto alla maggiore di un teatro, destinata anch’essa agli spettacoli. A volte è solo una sala più piccola, di dimensioni, rispetto al normale ma non sul piano di entità o di valore. E allora se è vero che ogni luogo ha il proprio nume tutelare, quella sera il Teatro Ridotto si è esteso, si è trasformato in un luogo potente e di protezione per contenere dentro le tante storie che compongono una e più meravigliose vite. I Racconti di Giugno è un libro scritto sulla carta (casa editrice Garzanti) e da lì «uno spettacolo scritto sulla pelle che ripercorre esperienze, incontri e le lotte tra la vita e il teatro». Pippo Delbono, attore, regista teatrale, uomo libero, parla d’amore. E lo farà annullando i tempi e le distanze, sussurrando o urlando dettagli del suo vissuto a ogni spettatore presente perché lui sa che l’abilità di raccontare richiede sia intimità che confidenza. Richiede verità e coraggio, che non gli mancano affatto. È un racconto con se stesso che verrà condiviso con chi non conosce; un pubblico ampio, taciturno, con i cappotti ancora addosso. In una scena aperta le luci sono accese, un tavolino di metallo nero con sopra una bottiglia grande d’acqua minerale, una piccola bottiglia di birra, un flûte vuoto, la sedia di legno, l’asta e il microfono e accanto una consolle. Più tardi, Pepe Robledo, l’amico amorevole di Delbono, ne farà da diga. Musica di Vivaldi, Joplin, Waits, luce e ombre governeranno il flusso delle parole bagnate, immerse dal suo fiume narrativo. Fuori la pioggia va, insieme al lontano rumore delle automobili della strada vicina. Siamo in viaggio. Pippo Delbono comincia il suo monologo ma non resta solo. Parla, pensa a alta voce, ci accompagna al suo trascorso. La madre, la famiglia cattolica, Varazze, il ridente paesino della Liguria, le mentalità chiuse, lui angioletto nella sua prima recita a soli tre anni. Legami umani e artistici. Grovigli. Scioglimenti. La passione e l’eros amalgamati in una amicizia ardua fino a tacere, accettare la droga e il dolore, sfiorare la morte. Toccare il fondo e risalire, rinascere, scegliere di non morire per un altro ma vivere per se stesso. Conoscere il mondo. Respirare. Stendersi al sole. L’incontro inatteso con la scuola di teatro, esercizi di r-esistenza contro i tradimenti, le delusioni, la malattia. Il corpo che ride e piange, che combatte, che sperimenta, che conosce mestieri, persone e Dio e va oltre la fatica in cerca di grazia. L’acqua che rivela arcani, la bottiglia che trascrive sentimenti. Si mima la presenza di chi è stato. Frammenti autobiografici da Urlo, Il tempo degli assassini, Rabbia e da Enrico V, nuotano con Pina Bausch, Eugenio Barba e l’Odin in Danimarca. Perfino con Arafat e la regina d’ Olanda casualmente fino a unirsi con Gianluca, Nelson, seduto in sala insieme a Bobò per ricomporre lo straordinario nucleo di questo corpo robusto, generoso e profondo nel teatro e nella vita. «La curiosità degli altri, il senso nascosto delle relazioni, il filo rosso degli invaghimenti negli spettacoli, la coscienza di una bellezza senza confini nelle storie, l’ardore non solo etico nelle scene della vita e nelle scene del teatro, il lato dei desideri non espressi ma mostrati, l’estasi delle cose che ti perdono e che gli altri non ti perdonano, le coincidenze (tante) di giugno, il mese in cui sono nato, quel qualcosa di se stessi mai detto forse perché mai chiesto». E mentre nelle orecchie risuona l’eco delle parole di Delbono e degli applausi del pubblico, non so se correre lungo la provinciale con tutte le mie forze, senza fermarmi o andare dietro le quinte, cercarlo e abbracciarlo. È «giugno. Apparteniamo alla terra, siamo lontano dal cielo in questi giorni».

Ifigenia Faye Kanarà

]]>

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.