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L'amore mercificabile. "La Traviata" di Andrea Bernard

di Altre Velocità

Al Teatro Comunale di Bologna, dal 28 aprile al’8 maggio, va in scena La Traviata di Giuseppe Verdi, riadattata dal regista trentaduenne Andrea Bernard. Si tratta di una riproposizione dello spettacolo già visto a Busseto – la cittadina in provincia di Parma che diede i natali al grande compositore – in occasione del Festival Verdi 2017. Le poche variazioni riguardano soprattutto gli interpreti principali, ma il concetto chiave attorno a cui ruota tutta l’opera resta, secco e cinico, il medesimo: l’attrazione che spinge i due protagonisti, Violetta e Alfredo, reciprocamente a volersi non è amore, bensì egoismo. È tutt’al più un amore mascherato; un sentimento ambiguo ma subdolo, dove predomina più il bisogno personale che il libero dedicarsi appassionato all’altra persona. Il progetto del regista parte da un quesito essenziale: «capita spesso di sentire persone incapaci di stare da sole, o che terminata una relazione ne cercano subito un’altra. A questi livelli dove sta il confine tra amore per l’altro e l’egoismo?». In questa visione il rapporto frastagliato di Violetta Valery e Alfredo Germont, i due principali personaggi ricavati dal librettista Francesco Maria Piave dal dramma La dame aux camélias di Alexander Dumas figlio uscito nel 1848 (estrapolato dal racconto omonimo dello stesso autore), da cui poi è tratta appunto La Traviata, lascia intendere uno scambio di tenerezze finte e doppi fini impliciti.

Bernard ha cercato di restituire sul palcoscenico la questione con una soluzione tanto ambiziosa quanto originale, e, nel complesso, riuscita. Il lussuoso appartamento parigino di Violetta Valery è diventato una modernissima sede di casa d’aste (simpatico il nome aziendale cui si è dato, «Valery’s», visibile in due eleganti insegne a lettere in metallo, e che allude evidentemente alle due più grandi compagnie internazionali Sotheby’s o Christie’s), mentre la casa in campagna della giovane coppia si è trasformata in un loft minimalista. La parola egoismo per il regista, a quanto pare, è intrinseca all’arte contemporanea, o meglio, è una caratteristica fondante del «sistema» dell’arte contemporanea, come lo si chiama in gergo. Ammessa la relazione basata sul mutuo egoismo tra i due protagonisti, lo stesso Bernard dichiara: «ho immaginato un parallelo tra la mercificazione dei sentimenti e la mercificazione dell’arte». E le case d’aste, luoghi di commercio e di affari, dove l’arte si mostra nella sua veste più prosaica e materiale, spogliandosi di tutti i valori alti che la definiscono, sono una metafora efficace e perfetta della mercificazione sentimentale. Una foto infatti, che rappresenta il ritratto della stessa Violetta languida su un letto (e corrispondente alla sua effigie nel racconto originale), sarà il fulcro di tutta la vicenda, l’anello di congiunzione dei due amanti: comprato all’asta nel primo atto da Alfredo e da lui poi imbrattato davanti a Violetta nel secondo atto, con un gesto quasi iconoclastico, per poi essergli restituito direttamente e definitivamente dal letto della tisica morente, a ricordo del suo amore e della sua bellezza ormai svanita: «prendi – dice Violetta con voce flebile – quest’è l’immagine de’ miei passati giorni; a rammentar ti torni colei che sì t’amò».

Il giovane regista bolzanino, che insieme a Alberto Beltrame ha collaborato alle scene, è anche architetto. Ciò lo deve aver aiutato nella costruzione della scenografia, precisa e definita in ogni dettaglio. Le ampie e grandi pareti dove si articola la vicenda sono rifinite come cemento a vista, ambientando l’opera quindi quasi fosse in un edificio di Carlo Scarpa. La pulizia del superfluo e l’ariosità del volume caratterizzano l’interno sia della casa d’aste prima, che la villa in campagna dopo; e la nitidezza dell’insieme unita alle luci fredde (curate sempre da Bernard con Daniele Naldi) permette di mettere in evidenza e sottolineare i pochi ma efficaci dettagli. Nel primo atto, nella sede di «Valéry’s», delle file di sedie ingombrano il centro dell’aula. Cinque simboliche opere d’arte contemporanea e moderna contestualizzano il luogo: ai lati del palco una statua di Giacometti a destra e una maiolica smaltata a sinistra; al centro è chiara la tela del Doganiere Henri Rousseau Donna che cammina nella foresta, affiancata da un quadro di tessere colorate alla Gerhard Richter e un ritratto di giovane. Da un barile di petrolio è ricavata la cattedra del banditore, da cui Alfredo dedicherà il celebre brindisi «libiamo» all’amata. Nei due successivi atti invece pochi mobili arredano lo spazio, come un divano (poi sostituito da un materasso, letto di morte della tisica Violetta), delle sedie design e una tv led.

Qualche parola sul soprano. Mariangela Sicilia è una donna bellissima, ha un viso incantevole e giovanile, un corpo che pare quasi esile e minuto ma attraente; la carnagione è bianchissima e l’attitudine è conturbante. Bene, anzi benissimo si adatta al ruolo di Violetta Valery, ovvero la Marguerite Gautier del racconto di Dumas, figura a sua volta presa da Alphonsine Duplessis, la ragazza arrivata a Parigi dalla campagna e veramente morta di tisi a 23 anni, di cui si innamorò follemente il figlio del grande scrittore, che decise di immortalarla con un romanzo. A 15 anni già faceva la grisette nel capoluogo francese, e Dumas la descrive come una ragazza «alta, esilissima, i capelli scuri e la carnagione rosea e bianca. Aveva la testa piccola e gli occhi lunghi e obliqui come quelli di una giapponese». Si dimostra austera e dura nel primo atto, languida, triste e scoraggiata sul calare dell’opera; gli acuti sono dei trilli veementi e sicuri di sé al principio, ma assumono via via un suono esangue e diafano, diventano dei guizzi come aneliti, gemiti, fino a smaterializzarsi e fondersi con la musica (direttore è Renato Palumbo, la musica è limpida per tutta l’opera, ma talvolta supera i cantanti in modo fastidioso per l’ascoltatore): nel finale del terzo atto è una sferzata il canto del cigno di Violetta («M’agita insolito vigore! Ah! Io ritorno a vivere»), illusa di poter rinsanire, dopo una serie di battute di tenera sofferenza. Merito è anche dei costumi di Elena Beccaro, di foggia contemporanea, eleganti ma non eccessivamente vistosi, adattati a una mondanità contemporanea tutt’altro che conservatrice. Violetta nel ruolo di proprietaria della casa d’aste ha un semplice completo color carta da zucchero, fatto di pantaloni larghi e blazer sportivo, scarpette nero con tacco alto. La si vede poi con dei pantaloni attillati e camicia bianca. Niente di esaltante, ma ciò che colpisce è proprio questa ostentazione di quotidianità.

Altri interpreti sono: Luisa Tambaro nel ruolo di Violetta in alternativa a Sicilia; Aloisa Aisemberg è Flora Bervoix, l’amica cortigiana di Violetta; Marìa Caballero è Annina, la domestica; Alfredo Germont è interpretato a seconda del turno da Francesco Castoro e Wang Chuanyue; Germont padre invece è Simone del Savio e in alternativa Angelo Veccia.

Damiano Perini

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