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La storia di un giorno di pioggia. "Pueblo" di Ascanio Celestini

di Altre Velocità

Questa è la mia storia, la storia di un giorno di pioggia, raccontata all’Arena del Sole. Almeno così ha detto Ascanio Celestini, all’inizio di Pueblo. Per tre giorni, dal 15 al 17 marzo, mi ha lasciato entrare sotto la cupola di un teatro, costruita apposta per lasciarmi fuori. Dall’alto, da dove inizio a cadere, ho capito che le persone sono bicchieri, nati per essere riempiti, ma che sembrano averlo dimenticato. Si sono costruite dei tetti, per coprirsi in ogni momento dalle mie gocce e mi hanno girato le spalle, incastrandosi per bene nei muri. Per un po’ non si sono accorte che, anche di schiena, continuavano a essere trasparenti. Il bicchiere perde la forma, ma non la trasparenza. Sono diventati, così, finestre. Quando l’hanno realizzato, hanno preso dei vestiti per nascondersi, come le tende che apriva o chiudeva Celestini sul palco, lasciando intravedere Pietro seduto alla scrivania o coprendosi con la stoffa, trasformato solo in un’ombra. Per raccontare, per vedere all’interno di quelle finestre, il narratore è dovuto uscire dalla sua casa. Ha attraversato la strada e il palco seguendo attraverso tutti i suoi anni Domenica, la barbona che non chiede l’elemosina fuori dal supermercato. Lei, la conosco bene, è entrata in vari luoghi nella sua vita: il mercato, il convento, il monolocale dei servizi sociali, ma è sempre uscita in fretta, finché ha deciso di non averla proprio una casa. Non posso sapere che cosa succedesse nei vari là dentro, sono la pioggia e non ci posso entrare, però ho immaginato, dai segni sul corpo, le sue storie e l’ho vista riempirsi pian piano di giorni. Domenica è, come ha detto tante volte Said, il suo fidanzato magazziniere, un bicchiere di cristallo su un vassoio d’oro. È sotto un temporale d’inferno che è morta, sotto la raffica delle mie gocce, delle parole e dei gesti a valanga di Celestini, delle note di pianoforte e fisarmonica di Gianluca Casadei, dei gettoni giocati da Said alle macchinette. Si è rovesciata, ma era ricolma, dal cappotto le sono caduti tutti i fantasmi tascabili che aveva conservato negli anni, che non ha mai dimenticato di chiamare per nome. L’attendevano tutti: il padre, la suora, lo zingaro di otto anni che fuma, Said. Io li ho visti, erano lì all’aperto nel giorno del suo funerale. E allora ho capito, quella non era solo la storia di un giorno di pioggia, ma un giorno di pioggia che era la storia di tutti quelli che si ricordano di essere bicchieri.

Emma Pavan

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