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La coreografia è una filosofia pratica. Conversazione con Sara Manente

di Lucia Oliva

Un processo di creazione artistica come un gioco surrealista, dove il passaggio di «un’opera-testimone» accelera una staffetta creativa che corre nell’assoluta libertà delle forme e delle restituzioni.  Questo è il progetto RITA, il cui quinto episodio è stato presentato giovedì 6 febbraio a Raum dalla coreografa e danzatrice Sara Manente, italiana che lavora da anni nella scena performativa belga. Insieme alla proiezione contemporanea dei video finora realizzati per RITA, la coreografa ha proposto al pubblico di Raum una performance dove gioca con una coperta rosa, oggetto che è schermo e velo dietro cui nascondersi, partner per una danza di coppia, cavalcatura con cui attraversare lo spazio, margine, confine e abbraccio, misura trasformatrice e presenza immaginifica con cui continuare a confrontarsi anche in assenza.

Sara, iniziamo dal capire che cos’è RITA e il gruppo Cabra.

Cabra è un gruppo di artisti fondato a Bruxelles nel 2005, precedentemente nominato EVE, composto da sette performer interessati alla danza contemporanea e alle arti sceniche.
All’interno di Cabra non esiste una linea artistica comune, è quasi più facile riconoscersi per negazione, ma è attiva una fitta rete di collaborazioni incrociate, come danzatori, come supporto critico e occhio esterno, e spesso si lavora insieme in diverse modalità. Il progetto RITA è una di queste modalità.
RITA è un nome proprio, come se fosse un vero e proprio “autore”, ma insieme consegna anche i nomi di tutti i membri di Cabra perché non è incentrato sull’anonimità, piuttosto si tratta di un oggetto che fa da testimone e insieme un attivatore, un dispositivo che permette di agire. RITA siamo tutti noi ma è anche un’altra cosa in più.
L’idea di partenza è quella del cadavre exquis, il gioco surrealista in cui si assemblano parole o immagini all’oscuro degli interventi precedenti e che alla fine crea un qualcosa che trascende la somma delle parti e le intenzioni singole. In RITA però il procedimento è un po’ diverso: ognuno “ospita” RITA due mesi e poi lo cede a un altro componente del gruppo. In questo passaggio può depositarsi qualcosa, finora sono stati realizzati video, ma può altresì trattarsi di una pratica scritta o performativa, e tutto viene documentato in rete sul sito di Cabra.
(cabra.weebly.com)

Questa però è la prima performance realizzata all’interno di RITA

Si, il mio contributo avviene in forma performativa ma non è completamente esatto dire che sia stato “provocato” dai video realizzati dagli altri membri perché vorrei allontanarmi da questa idea di origine. Si tratta puramente di una cronologia, di una staffetta: è come se tutti i contributi coesistessero, per questo mostro i video tutti insieme. Ognuno può infatti utilizzare RITA secondo i propri interessi e inclinazioni, senza obblighi o costrizioni di sorta. RITA non ha lo scopo di creare uno spettacolo ma più quello di essere un terreno di scambio in cui sperimentare altre forme di collaborazione, al di là delle modalità di produzione più canoniche che pure sono fondamentali e ci tengono in vita come artisti.
Questo progetto è l’occasione per testare forme diverse, magari più piccole e non necessariamente performative. È un po’ una risposta anche alla sensazioni di ripetersi ogniqualvolta si crea un’opera: forse sono anche le forme produttive in sé a darci questa sensazione, e RITA è un antidoto a queste modalità, e insieme coesiste con loro nei nostri percorsi individuali. Nelle mie creazioni di solito parto da una ricerca linguistica, ma qui invece ho voluto lavorare su qualcosa di più sensoriale: nei video si vede una relazione con un oggetto, come manipolo questa relazione e insieme ne sono manipolata. Io ho scelto un oggetto particolare che rende possibile instaurare relazioni affettive ma anche trasformarle: non è un oggetto simbolico, anche se possiamo dargli un valore tale, ma solo per poi smettere immediatamente di riconoscerlo. Per me si tratta sia di una superficie che permette momenti più fisici, più danzanti, fatti soprattutto di tensioni ritmiche, sia di un’interfaccia che innesca una relazione: è un oggetto che avvera modi diversi di essere senza creare una serie di ritratti o di personalità ed insieme è un oggetto molto maldestro, capace di humor e di portare alla luce attimi di quella comicità critica che mi appartiene.



Dici che nei tuoi lavori precedenti il punto di partenza è sempre stata una ricerca di tipo linguistico. In che modo ti interessa mettere in discussione le modalità della danza contemporanea di oggi?

Credo si tratti di farsi delle domande le cui risposte sono complesse e non completamente svelate, che funzionano però come motore per un agire artistico. Per esempio Some Performances è un video in cui Ondine Cloez e Michiel Reynaert ripropongono alcune performance “iconiche” a partire dagli anni Sessanta fino ai Duemila. Il riferimento è al mondo delle arti visive, ma anche alla danza, infatti si può riconoscere il lavoro di Trisha Brown o di Hanna Halprin. In quel periodo si parlava molto di re-enactments per questo tipo di operazioni, ma non si tratta di questo: la relazione tra il corpo e lo spazio è completamente decontestualizzata, i due danzatori sono nudi in una stanza, c’è sempre qualche alterazione rispetto all’originale e si perde ogni referenzialità al contesto storico e ogni connotazione politica. Soprattutto c’è una sorta di “superficialità” che mira alla leggerezza. Si tratta anche di una modalità di riappropriazione di un potere: è un po’ come chiedersi: «dopo tutta questa storia cosa possiamo fare?».
Anche Lawai means Hawaai nasce da una domanda similare. Si tratta di una coreografia con cui ho fatto completamente tabula rasa per ripartire dalle basi, per capire come muoversi, come danzare, perché è difficile oggi danzare dopo tutta la non danza! È un trio in cui sono sia coreografa ma anche interprete insieme a Ondine e Michiel. Il lavoro indaga gli elementi di fondo della danza, il corpo come figura e oggetto e nella sua relazione con lo spazio: cosa succede quando lo tratto come sfondo, come background, e cosa se porto una figura in primo piano, e tutto questo visto attraverso la lente del suono. In realtà abbiamo tradotto e applicato in danza le diverse concettualizzazioni del rumore, dalla suddivisione delle frequenze nei diversi tipi di rumore come quello bianco, rosa, marrone, fino arrivare all’idea di rumore presente nella teoria della comunicazione, attraversando diversi fenomeni acustici. Lawaai infatti in fiammingo è una delle molte parole usate per indicare il rumore, inteso come noise. Il suono è stato trattato come oggetto e come spazio, osservando come è in grado di modificare l’ambiente e il corpo stesso e lavorando con le alterazioni che provoca.



Qui a Bologna per Live Arts Week 2013 hai presentato una coreografia di cui sei autrice senza essere in scena.

Faire un four è un quartetto che in qualche modo prosegue l’esperienza di Lawaai. Credo che interrogarsi sulla danza e sulla coreografia ti porti a mettere l’attenzione su altri aspetti della creazione, su quello che non si vede, su quello che non c’è ma si può evocare, e anche su quello che si nega. Non si può più pretendere di essere originali a tutti i costi: come danzatori si è la somma di tutte le esperienze avute, gli insegnanti con cui si studia, le performance viste e anche tutto quello che si desidera artisticamente o da cui si è “mossi”, ispirati. Il corpo è già “iscritto” con un movimento, ancora prima di una coreografia. Da questa stratificazione bisogna partire per recuperare un proprio personale modo di essere, di danzare e di porsi nel mondo. Si tratta forse di trovare il proprio posizionamento e la propria unità in questa complessa trama di relazioni, e di continuare a riconoscere il desiderio come motore del cambiamento. Per esempio la domanda di base per i quattro interpreti di Faire un Four era di “mostrare la propria danza”, che è una richiesta paradossale, immobilizzante: come cristallizzare la propria identità in una forma? La questione diventa quindi trasformare questa richiesta in una forza positiva, creatrice di movimento. La soluzione trovata è stata quella di “fare la danza degli altri”, perché anche in questo caso quello che emerge è se stessi. Quindi prima ho chiesto ai danzatori di realizzare degli “omaggi” rivolgendosi a artisti o performance che li avevano in qualche modo ispirati, poi abbiamo creato una pratica quotidiana in cui ognuno riproduceva la danza dell’altro, non solo in termini formali, ma anche in termini di ritmo, di peso, di dinamica e infine di logica. Da questa serie di esplorazioni, che venivano ripetute ogni giorno, si è stratificata la danza dei quattro, scomponendo e ricomponendo i vari elementi. Poi lo spettacolo ha anche altre caratteristiche, tutte improntate a un’idea di apertura al mondo, al fuori del teatro. Alla fine c’è anche un momento in cui gli interpreti chiamano per nome gli spettatori, ovviamente inventandoseli, e in questa interpellazione diretta c’ è un pieno riconoscimento dell’esistenza dell’altro.

Mi sembra che negli anni tu stia continuando a ragionare sull’idea di coreografia, intesa non solo come scrittura ma come dispositivo che crea le condizioni del movimento. Cos’è oggi per te la coreografia?

Non ho una risposta a questo ma piuttosto un insieme di altre domande: la coreografia resta un campo aperto di conoscenza capace di suscitare molti interrogativi. Innanzitutto è necessario allontanarsi dalla creazione di uno stile, o di una “scuola”, come spesso accade. Oggi mi sembra di vedere nella coreografia la possibilità di fare una filosofia pratica. Prima per me era molto importante la coreografia, l’idea, l’insieme delle decisioni prese, ora invece ho molti meno problemi con la danza, e ho anche smesso di interrogarmi sulla differenza tra coreografia e danza, e forse è anche in questo che si può iniziare a trovare una possibile risposta.

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