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Kudoku di Daniele Ninnarello

“Kudoku”. Ipotesi di cura e di rivolta

di Francesco Brusa

Quando John Coltrane registra nel 1965 il suo album Ascension, è in qualche modo già morto. Il lavoro precedente, A Love Supreme, aveva decretato la notorietà del sassofonista statunitense in una maniera così perentoria, che sembrava semplicemente “illogico” poter subire ricadute o raggiungere picchi ulteriori. Ma era anche l’uomo Coltrane, se vogliamo, a vivere in una sorta di limbo esistenziale: “salvatosi” dalla dipendenza da eroina e riconnesso a una mistica e totalizzante trascendenza verso il cosmo, verso la “spiritualità delle vibrazioni”, mentre la sua musica, coerentemente, si distaccava dagli ancoraggi tonali e modali dei dischi precedenti per abbracciare il free jazz e la sua promessa di emancipazione attraverso il rumore. È quasi l’ingresso in una spirale da cui non si può più uscire. La si può rimodulare, invertire di segno, ma la sua rotta (ascensionale, o discensionale, appunto) rimane già tracciata ed è la rotta di una deriva costante, di un abbandono liberatorio della grammatica e della sintassi. Una “religiosa dislessia”, della parola infine che si fa urlo e bestemmia, del suono e della nota che si trasformano in happening.

Viene in mente questo sostrato mentre si assiste a Kudoku. Anzi, verrebbe proprio da mettere in parallelo – seppur in maniera arbitraria – la parabola del sassofonista americano con lo spettacolo del coreografo Daniele Ninarello in collaborazione con il polistrumentista Dan Kinzelman, presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 2016. Un po’ perché la scena riprende certi stilemi dell’happening (una stazione mixer che ci accoglie sulla destra del palco in penombra, prima che il danzatore si presenti), un po’ perché il commento musicale intessuto da Kinzelman, che grazie al loop fonde fra loro diversi fiati, si concentra molto più sulle vibrazioni che sui fraseggi, andando a creare una vera e propria “orgia sonora” che avvolge e disgrega al tempo stesso. Il buio dei primi minuti ci invita infatti a lasciar perdere il quadro generale, per abbracciare una visione – meglio, una percezione – parcellizzata, molecolare. E, di rimando, l’illuminazione non si offre che per brevi spiragli. Ninarello è sotto un fascio di luce molto stretta, che pare quasi delimitare le sue possibilità di movimento. Per tutta la prima parte dello spettacolo resta come inchiodato coi piedi al suolo, mentre il resto del suo corpo “fluttua” innervato di singulti, di scosse improvvise e modulari, di microscopici e plurali «tentativi di evasione da sé» (nella precisa definizione di Laura Sciortino). È un disegno coreografico affascinante: da una parte, attraverso le estremità delle dita degli arti e del capo, la danza cerca di fuggire in verticale e smaterializzarsi come una fiammella (le luci amplificano l’effetto, mostrandoci le scie del movimento); dall’altra, nella ferma contrapposizione di bacino e gambe, si ribadisce un principio di plasticità, quasi di ordine. In altre parole, e richiamando il riferimento in apertura, sembra davvero di assistere alla traduzione in corpo e respiro di un andamento free jazz: la progressione ragionata di accordi in sottofondo che viene “smembrata” da assoli rabbiosi e atonali.

Tornando ora proprio a Coltrane, è interessante notare come i due dischi citati avessero profondi punti di contatto eppure si posizionassero anche in antitesi l’uno con l’altro. È come se Ascension, che dal punto di vista formale sposta più in là l’asticella segnata da A Love Supreme, fosse però, per quanto riguarda il contenuto d’ispirazione, una sorta di ritorno sui propri passi, un dar voce a dubbi che erano rimasti irrisolti. La “smisurata preghiera” di A Love Supreme, così luminosa e torrenziale nella sua coloritura timbrica, tradiva contemporaneamente un fondo oscuro, un moto segreto e sabbatico. Ebbe a dire Jean-Louis Comolli: «Musica non celeste, ma infernale, in cui l’amore di Dio è la morte dell’uomo». Ascension dà voce a questa consapevolezza, che nel disco precedente era rimasta sottotraccia. Semplicemente, ci ricorda che l’essere umano non può volare. Ecco che allora non possono darsi elevazione o ascensione propriamente dette, se non come “sbalzo in negativo”, come contro-reazione di forze. L’immersione negli abissi è l’unica via per l’assalto al cielo. Nella seconda parte di Kudoku, il guizzo diventa misura. Il movimento di Ninarello si fa più ampio, cadenzato secondo un ritmo che acquisisce maggiore distensione. Sganciato finalmente dal suolo, può esplorare il palco in tutti i suoi lati e scoprire altri parti di sé. È come se il corpo del danzatore si auto-osservasse in un misto di sorpresa e timore: estende le gambe in cerca di spazio, replica le “scariche” delle braccia in maniera meno nevrotica e più controllata. Talvolta si ferma in posizione frontale agli spettatori e compone delle figure che potrebbero a tratti ricordare le composizioni della Compagnia Virgilio Sieni. Ma se nel caso del coreografo toscano il moto ondulatorio e frastagliato del gesto è espressione innanzitutto di un controllo sovrano, di un disegno esatto e preciso che trascende i corpi e li innerva di vibrazione dall’alto, in Kudoku il “respiro cinetico” degli arti esprime una titubanza interiore, è scattante perché cauto, fluido e sinuoso in quanto derivante da un atteggiamento guardingo.
Ancora, l’illuminazione riflette e amplifica il principio compositivo: la luce calda si allarga e permea quasi l’intera estensione della scena. Invece che sul riverbero, ora ci invita a soffermarci più sulle linee, sul profilo delle spalle, della testa e dei polpacci, in qualche modo sull’origine del movimento più che sul movimento stesso. C’è una progressione abbastanza chiara in tutto questo: se la prima parte dello spettacolo è tutto sintomo e superficie, la seconda sembra condurci maggiormente verso territori psicologici. Costituisce, in maniera obliqua e sottile, una diagnosi, che è però già ipotesi di cura, presa di consapevolezza. Acknowledgement, per continuare il parallelismo.

E ancora, l’evoluzione stilistica di Coltrane da A Love Supreme ad Ascension, ma in generale il suo viaggio all’interno dei non-canoni del free jazz, hanno anche delle motivazioni politiche. Sono gli anni in cui la rivolta dei neri nei ghetti americani infervora e, almeno in alcune delle sue componenti, si radicalizza (in quel periodo il sassofonista registrò una sessione dedicata a Martin Luther King, Reverend King). Coltrane si sente parte di un movimento più ampio, di un’onda che lo tocca e che con la sua musica può contribuire a spingere. Perciò, Ascension è “black” in tutti in sensi: perché possiede una componente oscura, di cui abbiamo detto, ma anche perché si aggancia con forza, quasi con furore, alle vicende della comunità di colore americana. Perciò gli strumenti gridano, e la preghiera arriva a coincidere con la bestemmia.

“Kudoku”, nel pensiero buddista, è il raggiungimento di uno stato di felicità. O, tradotto in danza e per usare le parole del foglio di sala, il momento in cui «l’evolversi della figura umana si rende visibile». Il finale dello spettacolo è piuttosto esplicito, nel marcare la progressione che ne ha contraddistinto lo sviluppo. Ninarello assume le movenze di un derviscio e rotea a braccia distese, mentre la luce oramai piena irrora sia lui che Dan Kinzelman, a raggiungerlo sul palco proprio con un sassofono. È il ricongiungimento non solo di due protagonisti, ma anche di quel “puntinismo visuale” dell’inizio che ora acquisisce le fattezze compiute di un cerchio, di una spirale.
Il fulgore di questo finale contiene in sé le crepe attraversate per arrivarvici. È un andamento in qualche modo didascalico, ma sincero e robusto nel suo dipanarsi in progressive stratificazioni corporee, che insistono prima sul dettaglio, poi sui profili, infine verso il campo d’insieme. È qualcosa di piacevole e – ci viene da dire – sorprendente, se lo pensiamo come un “oggetto” che circola “nell’orbita Italia” dal 2016 a questa parte. Perché sembra essere, col suo piglio contro-culturale, una testimonianza di inquietudini global-provinciali. Perché sembra raccogliere, pur nella sua astrattezza e nel suo misticismo, delle tensioni concrete.
Diceva il sassofonista Archie Shepp (che suonerà con Coltrane in Ascension): «Dal punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sono retrogradi. Ma il jazz è realtà americana. Una realtà indiscutibile. Il musicista di jazz è come un reporter, un giornalista estetico dell’America». La danza allora, sembra suggerirci Kudoku, può essere una cartografia in divenire del presente. E il gesto, improvviso, l’accadere puro della voce in rivolta, il suo motore pulsante.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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