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Ivan, mi fai da specchio? Fausto Russo Alesi e Dostoevskij

di Altre Velocità

Ivan ispirato a I fratelli Karamazov dello scrittore russo Fedor Dostoevskij, la cui interpretazione è stata affidata a uno dei volti più acclamati sulla scena teatrale contemporanea italiana, quello appunto di Fausto Russo Alesi. Alla regia Serena Sinigaglia. Dietro le quinte del testo Letizia Russo. Un padre col ghigno sulle labbra, sguardo sprezzante. «Aljoscia!», egli grida. «Ivan!», grida quest’uomo che mai padre è stato. I due fratelli non gli rispondono. Restano in attesa. Cos’altro possono fare loro, se non restare a guardare come l’odio sfiguri l’anima di quest’uomo che mai padre è stato. «Aljoscia Dio esiste?» «Si, padre». «Ivan Dio esiste?» «No». Silenzio. D’improvviso matte risate si fanno largo nella stanza. Che figli burloni! E ride e ride e ride Russo Alesi mentre suda sarcasmo. «Ve lo dico io in cosa credere! Dio? Una gran balla! La fregna! Non capite? Possedere una donna, scavarle dentro, sempre e ancora e ancora». Silenzio. Per i corridoi di casa Karamazov il vuoto. Solitudine e vuoto. Dubbi in forma d’inchiostro e vuoto. Demoni, la compagnia di Ivan. La sua mente, la sua unica stanza di ristoro e di ricovero. In quest’atto unico gli interrogativi non si lasciano attendere e l’attore Russo Alesi ci delizia così: «Dov’è?» domanda a sé e al fratello Aljoscia. «Se esiste, dov’è la giustizia?» urla Ivan alzando gli occhi al cielo. «Dimmi Aljoscia, anzi rispondimi tu, Dio! Perché i bambini sono il concime per ingozzare il regno dei cieli? Un bambino che soffre è un’immagine, Aljoscia, che non dovremmo avere nella memoria. E allora io non tollero il perdono. Io non tollero che una madre perdoni il carnefice del proprio figlio. Io non tollero». Rabbia. Nessuna risposta. Non ci sono pause. Una scenografia, quella della spirale, a far fronte alla tragicità del dramma. Al suo centro l’attore recita il monologo da seduto o da alzato, la sua figura non è mai stabile. Nero è il suo vestiario, come se fosse un prete pronto per il sermone. Noi spettatori i suoi peccatori. Tra le mani un libro. Le luci, padrone dell’atmosfera. Il morbido gocciolio, lieve sottofondo musicale. La spirale che tutto avvolge, tende verso l’alto. I fogli-foglie di questa spirale-albero sembrano essere un netto richiamo all’autunno, come se la malinconia delle parole di Ivan non fosse abbastanza. E al suo centro l’attore. Il respiro di Russo Alesi che si fa corto fra un delirio e l’altro. Quest’attore portavoce del pensiero dostoevskijano che mette alla prova la solidità della nostra coscienza. Quest’attore che rende omaggio alle parole con cui ci inchioda sulla poltrona senza via di scampo. E tratteniamo il fiato in attesa di una tregua. Ma lui non ce la concede. Ivan non è magnanimo. Il volto di Satana è l’ennesimo schiaffo che non siamo riusciti a schivare. Satana il figlio, Ivan il padre e Russo Alesi che interpreta prima l’uno e poi l’altro quasi non lasciasse allo spettatore il tempo di distinguerli. Chi è l’uno e chi è l’altro? Domanda sbagliata. Sono la stessa persona. Il disgusto per sé stesso e l’angoscia dilaniano Ivan. Le certezze cadono una a una lentamente, ognuna con il suo peso. Eppure nel Il grande inquisitore l’opera in cui «gli occhi dolci del Cristo» vincono sull’odio del novantenne inquisitore spagnolo, Ivan torna a sperare sull’uomo. Una grande appendice del suo pensiero, in cui mette a nudo le sue contraddizioni sulla religione, sulla libertà e sulla condizione di perenne schiavitù dell’essere umano. Ivan Karamazov è lo specchio attraverso cui guardarci, attraverso cui porci senza troppe paure la domanda perché.  

Carmen Zaira Torretta

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