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[Ipercorpo 2022] Cartolina #7 – L’aria è il fracasso di una lama dentata e il belare di un gregge

di Damiano Pellegrino

Sono le ore 13:00 e il sole batte nonostante la presenza leggera di alcune nuvole. Raggiungiamo di corsa gli spazi dove si svolge Ipercorpo, giunto alla settima e penultima giornata. Pochi coraggiosi si aggirano per le strade di Forlì, il mare è lontano e l’umidità è altissima. Alcuni dei superstiti a questo clima tropicale si sono raggruppati negli spazi del festival per seguire, insieme a noi, una Masterclass dedicata all’organizzazione di produzioni internazionali coordinata da Mole Wetherell, direttore della compagnia Reckless Sleepers che alle ore 21:00 presenta un lavoro del 2012, A string section, che ha all’attivo più di quaranta repliche tra Francia, Belgio, Inghilterra e Australia. Nel cortile incontriamo anche Mara Serina, una delle direttrici della sezione teatro e danza del festival Ipercorpo, che ci spiega la difficoltà di reperire le sedie che servono proprio per la scena di questo spettacolo previsto in serata. Mara non è la prima volta che assiste a A string section e ci confessa di avere a casa ancora delle sedie integre recuperate alla fine di una replica di qualche anno fa. Le sedie che ha procurato per quest’occasione, invece, le ha raccolte al macero, sono tutte diverse e in un certo senso con il lavoro in scena i Reckless Sleepers donano una nuova vita a questi oggetti domestici. Mara si trattiene con noi e si sofferma a parlare di due progetti, IPP – ITALIAN PERFORMANCE PLATFORM e MASTERCLASS INTERNAZIONALE SCENA EUROPA, presenti nella programmazione di questa edizione e curati direttamente da lei. Qui di seguito riportiamo un frammento sonoro tratto dalla conversazione con Mara, in cui è possibile scoprire qualcosa in più su queste due iniziative.

Entriamo in sala per assistere finalmente a questo lavoro. Le cinque performer, Leen Dewilde, Lisa Kendal, Orla Shine, Caroline D’Haese e Sophie Vanderstede, stringono tutte una sega, una lama dentata nelle mani. Indossano un vestito nero elegante e ognuna sceglie una sedia, disposta in proscenio, la guarda e la esplora. Lanciano al pubblico occhiate ammiccanti, poi si accomodano e iniziano a segare le gambe dell’oggetto. Mentre lo spettacolo procede e le sedie perdono pezzi, le performer si stancano, sudano, sono sporche di segature, cercano nuovi equilibri, ma non gli è permesso di scendere dalla sedia, neanche per un attimo. Non si preparano alla caduta, allora, ma accolgono le possibilità che il disequilibrio propone loro. Quando una gamba cede, una mano o un piede tocca terra mentre il peso del loro corpo poggia su un materiale sempre più sventrato. La loro ricerca di un equilibrio ci sorprende. Dalla platea qualcuno ride, qualcun altro trattiene il respiro quando una delle performer cade rischiando di farsi male. Quando della sedia non resta quasi nulla le protagoniste si guardano. Ci sembrano stravolte, stanche. Fanno un inchino e partono gli applausi. A noi dopo questa performance fatta di azione pura, che accade lì ed è sempre unica, vengono in mente le parole che Mole ha suggerito nel pomeriggio a proposito della ricerca artistica della sua compagnia. Ha detto di sentirsi lontano dagli artisti rinchiusi su torri d’avorio, che pensano all’arte come alla ricerca di una verità. Io – ammette Mole – cerco di scatenare domande. Non mi serve che qualcuno dica che ha capito lo spettacolo. Costruisco un’arena, non so cosa accadrà lì dentro. Questo è il mio modo di lavorare. Cosa accade se sono in equilibrio su una sedia e inizio a distruggerla lentamente? Cosa evoca questa immagine non sarò certo io a dirlo al pubblico. All’uscita dal teatro vediamo facce confuse e facce entusiaste. Sentiamo i commenti sotto voce, qualcuno definisce lo spettacolo urticante, altri angoscioso, altri ancora irriverente. I Reckless Sleepers sono riusciti un’altra volta nel loro intento.

Alle 22:30 ci spostiamo dal teatro-tenda per raggiungere il capannone dell’ex-autorimessa e assistere a un altro lavoro in programma. Sulla scena incontriamo una figura distesa, che da questo momento chiameremo “pastore del canto”. Ha occhi inchiodati, fermi e lucidi quando il pubblico a metà del lavoro ha la possibilità di intravederli nella loro interezza e intercettare un’intesa seppur temporanea e precaria. I suoi occhi, infatti, scompaiono un attimo dopo oscurati da una mano. Il pastore del canto si copre le orecchie e interrompe il suo personalissimo corteo quando ode un altro canto in lontananza, questa volta intonato da tante voci sovrapposte. Per tutto il tempo prosegue la sua risalita col gregge lungo un’estesa passerella molto stretta: è il cammino che deve compiere ogni giorno. La processione a piedi di tutto il percorso lungo una retta che va da sinistra a destra, a cui si sottopone rigorosamente da solo, corrisponde alla durata totale del lavoro Deriva traversa della compagnia cesenate Dewey Dell. Il pastore del canto indossa una cuffia stretta, aderente alla parte superiore, posteriore e laterale della testa. Solo in una direzione si snoda il suo tragitto lento, lineare e scomposto, tradotto dai movimenti di Teodora Castellucci, da sola in scena, restituiti sotto forma di pause, sforzi in avanti con le gambe, piccoli slanci, pose bloccate e precise rotazioni con le mani. Azioni tutte ripetibili perché appartenenti, forse, a un corpus privato e a un sapere antico a cui può accedere solo il pastore. Il suo itinerario, che è ascolto e riscoperta di sé, ha luogo in uno spazio tracciato, delimitato e isolato, la pedana in cartone posta al centro della scena, che sembra staccarsi da terra e levitare e in cui si avvera la possibilità di affrontare un inabissamento tutto in solitaria. Il belare di greggi e il rumore metallico di campanacci accompagnano per quasi tutta la durata del lavoro i movimenti del pastore del canto fino a quando il suo corpo, nell’immagine finale un bozzolo o un involucro chiuso, si arresta.

Questo articolo fa parte dello “Speciale Ipercorpo 2022

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