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Intervista a Ennio Ruffolo, direttore artistico del festival perAspera

di Altre Velocità

perAspera è nato da pochi anni, ma crediamo che rappresenti già una di quelle poche attività che fanno respirare la città, un luogo nel quale circolano idee e visioni sulle quali vale la pena sostare…

Il vero perAspera è nato due anni fa, e questa si può considerare la terza edizione effettiva. La prima, nel 2008, è stata più che altro una piccola rassegna. Ciò che ci ha portato a creare perAspera è stata la volontà di creare un’occasione d’incontro tra artisti. Io non sono un organizzatore, né un direttore artistico vero e proprio. Io sono prima di tutto un artista. Quando a me e alla mia compagnia è stata data la possibilità di occupare per una settimana il Teatrino storico di Villa Mazzacorati ho subito pensato di condividerlo. Siamo in tantissimi, in città, e molti di noi non hanno la possibilità di far vedere i propri lavori al pubblico bolognese o dei dintorni. L’esigenza di un festival inteso come spazio aperto per gli artisti della città era nell’aria, e infatti perAspera non si pone come vetrina di opere, ma come una festa-festival di artisti.
Fare tutto questo ha alimentato la sinergia tra i gruppi di Bologna, credo, e oggi in città finalmente gli artisti si conoscono di più e si parlano.
Un altro elemento che dà forza a perAspera credo sia lo sguardo reciproco: la visione di artisti su altri artisti alimenta, in qualche misura, la creatività, o almeno ti rende consapevole di ciò che accade attorno a te. Nonostante una linea creativa sia sempre e comunque tua, l’incontro con altre poetiche è formativo, ti fa crescere. Dopo la chiusura del Teatro San Martino, a Bologna è venuto a mancare un luogo di visione partecipata. Pur in un tempo molto più estemporaneo e limitato, perAspera prova a tenere in piedi un discorso che si fonda, come dicevo prima, sull’incontro, sull’occasione dell’incontro.

Da operatore, come ti sei mosso in questi anni per creare la programmazione di perAspera?

Il primo anno la scelta è stata quella di chiamare delle persone amiche, colleghi con cui fosse possibile instaurare un dialogo su qualcosa che stava nascendo. Subito dopo la prima edizione, sono arrivate proposte su proposte di artisti che volevano partecipare, che volevano esserci.
Nella programmazione del festival ci sono anche delle cose che non mi piacciono, che non vedo in sintonia con il mio agire artistico, ma perAspera è pensato per essere un luogo nel quale mostrare anche solo la piccola parte di un percorso, e ciò che è importante, per me, è che sia riconoscibile un lavoro rigoroso, sensato, anche se il risultato può non coincidere con il mio gusto da spettatore.
Il festival ha sempre mantenuto il sottotitolo “drammaturgie possibili”: la parola “drammaturgia” è in assonanza con la parola “lavoro”. Credo che ognuno abbia un proprio rigore con il quale conduce il lavoro che sta dietro le opere. Questo è ciò che va premiato, nel percorso dell’artista, ed è per questo che alcuni (tanti) artisti sono a perAspera. Non chiedo mai a un artista di portare questo o quello spettacolo: l’invito è rivolto a lui e al suo gruppo.

Resta il fatto che fra le tante presenze la maggioranza è rappresentata da artisti giovani…

I giovani non li abbiamo cercati, non sono arrivati al festival perché volevamo a tutti i costi delle presenze under 35: abbiamo monitorato e riunito in maniera molto naturale, assecondando il fermento della città. C’è stata un momento in cui la critica e il sistema hanno mancato di appoggiare gli artisti giovani. Questo è dipeso anche dal fatto che il Premio Scenario è stato, per un po’ di tempo, l’unica occasione reale per i gruppi di mostrarsi. Chi non funzionava a Scenario, per qualunque motivo, non aveva più altre possibilità. PerAspera è anche la possibilità di farsi vedere, di affermare la propria esistenza.
Quello di cui c’è bisogno adesso credo sia sostenere i giovani al di là dei premi che vincono e dei riconoscimenti che ottengono. A perAspera ogni artista si sente abbastanza libero di poter rischiare, e non c’è bisogno di qualcuno che premia o di qualcuno che stronca.  La questione del giudizio per me è molto delicata: credo che non si possa mai giudicare la passione che muove l’artista dentro il suo lavoro.

Non c’è il rischio di un’assenza di giudizio, o di un giudicarsi fra persone “troppo simili”?

In che fase del progetto posso giudicare un lavoro? Posso giudicare Alain Platel, i suoi spettacoli o altri artisti e altre opere di quel target, ma un giovane artista che ha meno possibilità, che non ha le risorse per far crescere il suo lavoro e magari nemmeno uno spazio per provare… ecco, in questi caso credo che l’unica cosa che io possa vedere sia un germoglio, un seme. Ed è con questo germoglio che si può venire al festival. Tra artisti il confronto verte più su dei consigli, direi. Così come a volte anche i critici fanno. Solo che spesso i critici lo fanno a lavoro finito, e l’artista tende a considerarlo un fallimento, una stroncatura. Un artista non è mai sicuro di sé, tende a farsi delle domande continuamente.

Dal punto di vista delle estetiche perAspera mostra una varietà, a una molteplicità di espressioni e di forme ibride, puntando molto sulla “quantità” e sulla ricchezza anche numerica degli artisti invitati…

A me interessa dare a un artista una possibilità, che comprende anche la possibilità di contaminarsi con altri artisti, con altri linguaggi. Credo che somigliare continuamente a se stessi o somigliare ad altri sia il sintomo di una fragilità. Somigliare a qualcosa solo perché funziona, per esempio, è sintomo di insoddisfazione: è impossibile che una persona abbia lo stesso identico modo di emozionarsi e di emozionare rispetto ad altri artisti. Quando si imita è più per una mancanza di coraggio. Spesso la mia compagnia viene accusata di non avere una linea, perché i nostri lavori sono molto diversi l’uno dall’altro, e quindi per alcuni operatori il rischio aumenta.
A perAspera cerchiamo di non delimitare mai il contenitore del festival per non togliere possibilità estetiche agli artisti. Infatti sono presenti opere di videoinstallazione, di danza, di teatro, e spesso gli artisti che sono tornati nelle varie edizioni del festival hanno presentato lavori molto diversi da un anno all’altro. Stefano Questorio, noto come danzatore, l’anno scorso ha dato il via a un progetto sulla canzone, e quest’anno prosegue su questa strada. Federica Falancia il primo anno portò uno spettacolo di danza che conteneva un video, e adesso lavora solo su questo secondo aspetto. Quest’anno ci sarà anche Francesco Costabile, un artista molto più vicino al cinema che porta un vero e proprio cortometraggio. O ancora, qualcuno sceglie di non fare spettacoli veri e propri, ma creare delle piccole cose che esistono solo per quel luogo e per quel tempo lì.
Questo è per noi anche un anno di prova: programmiamo 5-6 spettacoli in una sera. Il punto su cui ci interroghiamo è fino a che punto non stiamo bombardando eccessivamente lo spettatore. Perché anche le cose apparentemente più leggere, il video o le installazioni, che sono state spalmate lungo tutto il festival, meritano una loro attenzione fruitiva, una loro accortezza.

Dunque il tuo lavoro da direttore artistico è anche quello di agire sul sottobosco.

È assolutamente la cosa a cui tengo di più, e allo stesso tempo do un grande valore al fatto di riunirmi con i miei amici artisti, e stare dieci giorni insieme. Il punto è che a perAspera è tutto paritario: da Teatrino Clandestino alla Crociati a Cosmesi alla Falancia tutti percepiscono lo stesso cachet simbolico. Siamo riusciti a incrementare un po’ le nostre risorse, e dal primo anno in cui gli artisti ricevevano solo l’incasso dello spettacolo, ora siamo arrivati a un cachet, per quanto ridotto, che però ha un significato diverso come ricompensa. È stata la Regione Emilia-Romagna che ha alzato gli occhi sul festival, e ci ha permesso di crescere, anche se in misura relativa, economicamente.

Che cosa ti immagini per il festival tra dieci anni? Credi possibile che questo spazio di libertà possa scalfire delle contingenze e costruire uno spazio di libertà duratura? Diciamo questo anche pensando a una possibile evoluzione del festival, che in questi anni si è “affermato” come luogo vitale di visibilità e di esistenza, sostanzialmente però replicando la stessa formula di anno in anno. Ci sarebbe forse bisogno di un salto di qualità, per evitare che il tutto si limiti a una necessaria e bellissima festa di dieci giorni?

Ciò di cui soffre perAspera è l’assenza di un luogo aperto tutto l’anno. Bologna non ha spazi, e quelli che ha sono piccolissimi. Il teatro della Villa è in mano ad un’altra associazione che si occupa di concerti di musica classica. Quest’anno abbiamo ottenuto la possibilità di avere il teatro tre giorni prima e tre giorni dopo il festival, e più di così non potevamo sperare. Se avessimo un luogo per tre, quattro, sei mesi, potremmo mettere in campo un discorso di accompagnamento alla produzione. Quest’anno abbiamo ottenuto un luogo dove offrire ospitalità agli artisti, una risorsa messa in campo dal Comune di Bologna in collaborazione con l’Ostello della Gioventù di Bologna. Questo è un passo avanti.
Il secondo problema è rinforzare il piano del confronto tra artisti, e sarebbe importante avere anche artisti stranieri per ampliare lo sguardo e l’offerta. Ma c’è un problema istituzionale: non possiamo permetterci di pagarli. Sono convinto che se avessimo avuto anche una possibilità economica di poco più alta avremmo potuto alzare il tiro, portando a Bologna degli artisti esteri.

Immagini quindi uno spazio che possa iniziare a pensare percorsi di accompagnamento e sostegno alla produzione?

In parte mi sento di dire che stiamo già lavorando sulla produzione. Attraverso l’Arci abbiamo ottenuto un luogo di prove. Sei gruppi da ottobre a maggio hanno provato lì prima di presentarsi al festival. Il punto è che non è uno spazio nostro, e non possiamo metterci le scenografie, le attrezzature delle compagnie.
Io vorrei un luogo dove la produzione non fosse per uno o due gruppi, ma per tanti. Un’officina nella quale gli artisti possano lavorare.
Non credo che ci piacerebbe seguire un modello di produzione per cui finanziare solo alcuni gruppi. Semmai ci saranno soldi con cui produrre saranno dati ai giovani, e non per produrre delle prime, ma per sostenere il loro percorso. L’idea di produzione alla base di perAspera è anche più laterale, nell’offrire la possibilità di produrre qualcosa ad hoc per un luogo.
Vorrei continuare a sostenere una molteplicità. Spero che perAspera rimanga questo: un continuo offrire possibilità. Il problema attuale, nelle compagnie giovani e non solo, è che crollano tutti. Non c’è selezione nel tempo, ma un abbattimento alla base, a monte.

perAspera, come ci hai raccontato, è chiaramente un luogo di azzardo e rischio, sia per voi sia per gli artisti che programmate, dal momento che non si scelgono prodotti finiti ma percorsi in via di costruzione. Passerà da queste impronte digitali il futuro del festival?

Certo, perché un artista può sbagliare. Un’ulteriore elemento che vorrei incrementasse negli anni è proprio l’idea di una libertà espressiva, estetica e anche produttiva. Se mai dovesse diventare un festival importante, pieno di critici e operatori, sarebbe fondamentale che ognuno di loro riconoscesse questa qualità: chi viene a perAspera propone una parte del suo lavoro, e non ha l’obbligo di restituire un’opera compiuta, un debutto o un capolavoro. Se le istituzioni crescono con noi, crescerà anche il festival. Ma la crescita deve avere una solida base su quest’idea. 

di Serena Terranova

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