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In equilibrio tra limite e libertà. Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa

di Altre Velocità

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, il figlio dell’attore e direttore teatrale Geppy Gleijeses, articola coreograficamente una risposta. Lo fa in uno spettacolo realizzato il 29 gennaio al DAMSLab/Teatro di Bologna in occasione della serata di apertura della stagione teatrale 2019 de La Soffitta. Sulla scena, il risultato di un processo metamorfico iniziato nel 2015, nato dall’incontro di Gleijeses con diversi rappresentati del teatro contemporaneo: Eugenio Barba e Julia Varley, direttore e attrice dell’Odin Teatret, Luigi De Angelis e Chiara Lagani, fondatori dei Fanny & Alexander e il coreografo Michele Di Stefano. Qui, suono e luce, curati da Mirto Baliani, si amalgamano a parola e gesto, restituendo, attraverso l’espediente della ripetizione di gesti, il senso della lotta soffocante che il protagonista vive nella ricerca della perfezione artistica. Nel buio e nella luce il corpo di Gregorio si esercita ossessivamente. Inizialmente, un danzatore prova la sua coreografia prima del debutto in un’oscurità tagliata solo dai rettangoli disegnati sul suolo da una luce autoritaria, proveniente dall’alto. Questa è bordo tra la definizione e ignoto, spazio in cui danzare, voce visibile del maestro coreografo e delle sue istruzioni. Si accendono le luci, non c’è più nessuno a fare da guida. Gregorio torna a casa, ma il suo corpo si muove tra le mura domestiche con gli stessi movimenti, perfezionandoli e incastrandoli in una routine che lo ricollega al mondo esterno attraverso il borbottio della televisione, la musica italiana, il cellulare. Attraverso le voci fuori campo portate da una tecnologia pervasiva. La fidanzata, la psicologa, il padre. Soprattutto il padre. Nei monologhi allucinati di Gregorio i frammenti delle parole di Kafka, delle Metamorfosi, della Lettera al padre, si incollano ai suoi gesti, estremizzati dalla coreografia in uno disperato tentativo di liberazione. I suoni e le luci, sempre più martellanti, colpiscono il danzatore come prese di coscienza pronte a ricadere nell’oblio, in un’atmosfera via via più onirica. Finché il confine tra sogno e realtà si scioglie tra gli angoli di un corpo che sa riconoscersi solo in una coreografia perfetta. Il maestro non risponde più. Il fascio luminoso che limita lo spazio in cui danzare non ritorna. Nell’oscurità finale solo una rotonda e calda luce si proietta in lontananza sulla parete. A Gregorio non resta che una corsa verso il buio. Nel corso dello spettacolo l’ossessione per la perfezione formale rivela come la definizione ricercata dal protagonista non sia semplicemente artistica, ma profondamente identitaria. Nei monologhi al cellulare, incapaci di raggiungere il destinatario, emerge la crisi di un soggetto frammentato. Frammentato nei gesti reiterati di una coreografia che danza fino quasi a consumarsi. L’angoscia deriva, dunque, proprio dall’impossibilità di sapere chi si è. Deriva, soprattutto, dall’incertezza sulla strada da intraprendere per trovare una risposta. Seguire la voce autoritaria di un padre o di un maestro? O perdersi nelle profondità di sé e nell’assenza di definizione? E dove si è più se stessi? Nella luce o nel buio? La risposta che non c’è, la sa danzare Gleijeses. È un interminabile movimento, un equilibrio tra limite e libertà.

Emma Pavan

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