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Un’impertinente consapevolezza. “50 minuti di ritardo” di Malmadur

di Giuseppe Di Lorenzo

My doctor’s no fun
Who cares of the pills
And about drugs
Can’t cure bored ills

– Destroy All Monster, Bored (1979)

Mai come in questo momento storico ci siamo trovati ad affrontare la noia con una serie di strumenti a dir poco stupefacenti. Non è forse un’esperienza lisergica, quasi trascendentale, quella di essere tutti costantemente collegati? Tenacemente nel “qui e ora”, eppure chiusi nei nostri loculi senza la possibilità di incrociarci per strada. Non possiamo fare niente, ma abbiamo creato un’infinita serie di tecnologie che devono intrattenerci, stimolarci, coccolarci, perfino esaudire le nostre pulsioni erotiche con abbonamenti gratuiti in vista di questi giorni di forzata clausura. Anche di questo parla, con intelligenza e ilarità, 50 minuti di ritardo della compagnia veneziana Malmadur, andato in scena il 13 dicembre 2019 in prima assoluta durante la loro residenza al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci.

Il pubblico fissa lo schermo sul quale degli attori proiettano fogli di testo dove scrivono le poche parole di una drammaturgia rarefatta ma dal linguaggio riconoscibile e chiaro, quello della routine giornaliera fatta di messaggi digitati e mai più riletti, parole in corsa. Veniamo trasportati a Mykonos, ne vediamo una piccola porzione in diretta su un canale YouTube. Siamo a teatro, in Italia, qui e ora, ma siamo anche a Mykonos, in Grecia, e assieme a noi ci sono persone da tutto il mondo sintonizzate sul nostro stesso streaming. La storia viene così espressa, tra i fogli bianchi di TextEdit, testi in Helvetica e foto da Google Maps, un flusso che conosciamo tutti benissimo, quel flow ritmato biologicamente dallo scorrere col dito sullo schermo del nostro smartphone. La storia è quella di Alessia Cacco, la regista della compagnia: l’aereo che doveva riportarla in Italia da Mykonos ha accumulato 50 minuti di ritardo a causa di un disguido avvenuto davanti agi suoi occhi. Due persone, senza un precisa identità, vengono interrogate in aereo: si sospetta infatti che siano clandestini. Le informazioni in loro possesso mettono in risalto diverse incongruenze e la situazione è evidentemente compromessa. Nessuno agisce, c’è sicuramente della tensione, viene facile immaginare il silenzio tra i passeggeri, preso quasi di comune accordo mentre ascoltano. Ci vuole diverso tempo ma alla fine i due passeggeri vengono fatti scendere, si può partire, il ritmo della vita già infesta l’ansia di poco prima e l’assoggetta nei ricordi da sbiadire. La narrazione salta, è il puntatore del mouse che vola da scheda in scheda, stavolta siamo su un canale YouTube che riprende una notizia da un notiziario straniero. C’è una giovane ragazza svedese in primo piano. I sottotitoli ci spiegano che all’interno dell’aereo è stato fatto salire un giovane che sta per essere riportato nel suo paese per essere processato, secondo la ragazza svedese è un perseguitato politico, proprio per questo sta girando un video in diretta sui suoi social col cellulare, per denunciare il fatto e avere dei testimoni. C’è molta confusione, gli operatori del volo si scagliano contro di lei, così come alcuni passeggeri che vogliono solo tornare a casa o andare a lavoro. Alla fine la ragazza riesce nel suo intento e vengono fatti scendere entrambi. Peccato solamente che, qualche giorno dopo il fatto, la protagonista del video verrà multata per il suo comportamento, mentre il ragazzo sarà trasportato nel suo paese d’origine.

Due eventi molto simili, il qui e ora a teatro cambia e si contamina di opinioni che cominciano a germogliare nei crani. A rappresentare i due passeggeri clandestini ci sono due attori in scena completamente ricoperti di una tuta di poliestere, forma senza soggetto, che una volta spogliati dei loro abiti da finta-vacanza diventano una tela bianca e anonima. Senza preavviso la drammaturgia evapora, ben prima di quanto sia lecito aspettarsi a teatro, e il cronometro posto a lato della scena segna il conto alla rovescia per la fine dello spettacolo: 50 minuti. Ecco che il qui e ora si scontra con l’inevitabile solitudine della noia: lo spettatore rimane senza spettacolo, ma gli viene fatto un dono piuttosto particolare. Prima di entrare in sala infatti la compagnia ha chiesto i nostri numeri di telefono e li ha raccolti tutti in un gruppo Whatsapp temporaneo. Abbiamo una scelta: scoprire cosa accadrà in quei 50 minuti, oppure utilizzare la chat per cancellarci tutti e far finire lo spettacolo prima della sua naturale chiusura.

Una volta calato il buio e cominciato il conto alla rovescia, aspettiamo qualche istante finché lo schermo si illumina e compare la nostra chat, proiettata in grande. La compagnia ci invita a discutere, a giocare. Nel frattempo tra di noi passa un tablet: grazie a esso possiamo scegliere la musica che dalle casse riempirà lo spazio vuoto del palco e della platea. Progressivamente gli attori interagiranno con noi, ci faranno foto e video, useranno diverse applicazioni che pulluleranno lo schermo. Eccoci ad affrontare la noia con una serie di strumenti a dir poco stupefacenti ma che sono integrati nel nostro quotidiano: è quasi un’esperienza lisergica e trascendentale, siamo tutti collegati ma soli. Lo spettacolo è finito o è appena iniziato? E a cosa ci è servita quella prima parte così politica, quasi fastidiosa? Perché Alessia in aereo non si è alzata come la ragazza svedese? Qualcuno lo chiede in chat. Gli rispondono in diversi, diverse opinioni, diverse idee, tutte superficiali. La noia sfocia e inonda il proscenio riversandosi verticalmente sullo schermo. Discutiamo senza sapere: c’è chi è indignato e c’è chi invece vuole solo giocare, c’è chi è indignato dell’indignazione dell’altro, chi posta continuamente foto dei suoi gatti direttamente dal rullino personale. Nella dialettica virtuale si crea inevitabilmente una distanza incolmabile tra noi e i due clandestini senza soggetto, nella chat c’è chi si chiede se esista un modo per salvarli, almeno nella finzione scenica. No, non si può. Il loro destino è offline. L’apparenza di controllo donataci dalla chat e dal tablet è, appunto, solo apparenza. Tramite applicazioni tra le più famose gli attori giocano con noi, ci lasciano interagire con danze virtuali e lo schermo diventa sempre più caotico e irrequieto.

Ricompaiono in scena i due attori senza soggetto per posizionarsi davanti allo schermo. Sui loro volti levigati e nebbiosi vengono proiettate le foto delle nostre facce, sorridenti, imbarazzate, annoiate, stupite. Alcuni spettatori si chiedono: ma se fossi stato io al posto suo? Sono quasi passati i 50 minuti quando viene proiettata L’incredulità di San Tommaso di Caravaggio: i corpi dei due clandestini assecondano quelli bidimensionali di Gesù Cristo e San Tommaso. È un invito a toccare per credere, per far sì che quella superficialità non si risolva nell’angoscia (cosa avrei fatto io al posto suo?) ma in azione. Il gioco di Malmadur è tutt’altro che futile, si pone invece proprio nel solco del ludico di Johan Huizinga e del suo pensiero antropologico in merito alla cultura primitiva come gioco. Non è così difficile credere che la cultura sia tutto frutto di un ancestrale gioco di società, ancor di più a teatro laddove fino a pochi anni fa molti dei giovani spettatori presenti in sala giocavano con i loro amici e sorelle in modi non poi così dissimili da quello degli attori ora di fronte a loro. 50 minuti di ritardo s’interrompe prima di poter diventare adulto, preferisce non maturare convinzioni nello spettatore, come un bambino vive l’adesso senza porsi troppi problemi sul dopo. Non potevo non ripensarci in questi giorni in cui, per un benessere preventivo di cui non capiamo tutte le sfumature, la nostra quotidianità è stata rivoluzionata drammaticamente. Normalmente siamo troppo presi dalle nostre urgenze, dalla nostra personale corsa, per poter annoiarci davvero e così riflettere intensamente sulle cose. La noia stimola il pensiero laterale, riattiva pensieri sedimentati o messi da parte, è una forza dinamica che rovina ogni piano di relax impostato tramite l’apposita app, ci costringe a prendere atto del qui e ora. Sta a noi scegliere cosa fare di questa impertinente consapevolezza.

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