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Lo sciamano di ghiaccio_4 settembre-18

#4 Immersi in sfumature di ghiaccio

di Altre Velocità

Quanto conosci la Groenlandia? Personalmente molto poco, dopo aver visto Lo sciamano di ghiaccio molto di più. 
Il teatro comunale di Gradisca d’Isonzo, per il festival In\Visible Cities, la sera di giovedì 4 settembre si è animato di un’atmosfera glaciale (letteralmente, in galleria siamo stati travolti sin dall’inizio da una gelida ventata di freddo che ha reso il tutto ancora più vivido). Con il supporto del direttore musicale Oscar Pizzo, Guido Barbieri ha costruito un racconto incisivo e creativo sulla fragilità delle tradizioni del popolo Inuit, condividendo il percorso con il regista Fabio Cherstich, il videomaker Piergiorgio Casotti e il musicista Massimo Pupillo.

Sin dall’inizio ciò che colpisce è l’apparato visivo di questo documentario. Accompagnate da suoni morbidi e dalle delicate linee del flauto, le prime inquadrature restituiscono il forte dualismo del bianco e nero, colori essenziali di un paesaggio fatto di ghiacci, neve e rocce. Bianco e nero usati anche nel cerchio centrale che come un mirino fotografico metteva a fuoco il racconto umano del paesaggio, che in trasparenza scorreva sullo sfondo. Scelta, che già sottolinea lo strettissimo rapporto della cultura inuit con l’ambiente naturale.

Poi tra lo svolazzare degli uccelli è arrivata lei, Karina Moeller, cantante inuit che vive in Danimarca. Con lei, sullo schermo, sono apparsi i colori e la sua voce eterea ha intonato canti tradizionali. Spesso suonava un Qilaut (un tradizionale tamburo sciamanico inuit) accompagnato dai tamburi dei musicisti posti sul lato opposto alla sua destra: forse un richiamo all’unica forma di lotta umana conosciuta dal popolo inuit che prevede un botta e risposta di tamburi. Da loro non c’è guerra, o almeno così racconta l’altoatesino Robert Peroni che da quarant’anni vive a Tasiilaq. Nella sua testimonianza emerge l’immagine di un popolo pacifico, libero, privo del concetto di proprietà. Nessun “mia” casa o “mia” moglie, solo casa, moglie. Nomi netti, tante invece le sfumature del ghiaccio: dolce o salato, tra le tonalità di azzurro, verde o grigio.

Il fascino per terre così lontane è innegabile, ma davanti a operazioni come questa serve cautela: una cultura viva rischia di trasformarsi in semplice suggestione visiva e sonora quando narrata senza conoscerne a fondo il quotidiano. Non a caso, molti inuit preferiscono non raccontarsi, convinti che gli occidentali non possano capirli. In questo silenzio c’è quasi una forma di resistenza, soprattutto in un contesto in cui la loro identità è minacciata dai cambiamenti climatici, dalla modernizzazione e dalle pressioni geopolitiche.
Questi pericoli compaiono più evidenti soltanto alla fine del documentario, affidati a scritte in bianco e nero, proprio come all’inizio era stata mostrata la voce muta dell’insegnante inuit che rifiuta di parlare agli intervistatori. Un cerchio che si chiude? Non del tutto: le questioni che il popolo inuit si trova ad affrontare adesso rimangono appena accennate, nonostante dai primi istanti della messa in scena con la proiezione di una breve intervista a Paolo Genovese, pareva volesse dedicarsi di più a questi temi. Secondo me si è invece prediletto un racconto sulla lenta metamorfosi di un popolo, concentrandosi più sulle testimonianze raccolte nel viaggio, sulle immagini e sulle suggestioni sonore. Una scelta, a mio avviso, più sensata: permette all’opera di restare fruibile nel tempo e di stimolare nello spettatore il desiderio di approfondire, offrendo almeno un primo contatto con la cultura inuit. Un focus sulle pretese di dominio statunitensi, per esempio, avrebbe richiesto un taglio documentaristico diverso e probabilmente più vincolato all’attualità, come accade anche per il tema del cambiamento climatico.

Lo spettacolo, invece, ci regala uno squarcio prezioso e ci coinvolge nel viaggio dei documentaristi, grazie a inquadrature come l’intervista-tour di Tasiilaq vissuta dall’occhio della telecamera seduta sui sedili posteriori. Così, oltre a restituire la bellezza di un popolo antico, ci ricorda anche i limiti del nostro sguardo e la necessità di un dialogo che non resti soltanto estetico. 

Sabrina Bello

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