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Il teatro, specchio critico anamorfico. Conversazione con Claudio Longhi

di Altre Velocità

La classe operaia va in paradiso, spettacolo tratto dall’omonimo film di Elio Petri e Ugo Pirro, produzione ERT Teatro Nazionale. Abbiamo incontrato il regista Claudio Longhi che ci ha raccontato il lavoro di adattamento scenico e come ha affrontato, insieme alla sua compagnia, la tematica industriale e la questione operaia, problemi sociali e politici solo apparentemente distanti dal nostro tempo. Com’è nata l’idea di portare in scena La classe operaia va in paradiso? L’idea è nata l’estate scorsa, una sera, chiacchierando con Lino Guanciale. È stata una proposta estemporanea, ma mi è subito sembrata una scelta opportuna in relazione come avevo cercato di immaginare la progettualità ERT per il triennio 2018-‘20. Da un punto di vista strettamente tematico, lo spettacolo cerca di gettar luce sulla contemporaneità. Per dirla alla Turner, si vuole usare il teatro come uno “specchio anamorfico” dentro il quale leggere il nostro presente e capire la funzione di base del teatro stesso dal punto di vista antropologico. D’altra parte stiamo percorrendo una fase storica importante, stiamo chiudendo i conti con il ‘900 e siamo in un’epoca post o ultra novecentesca, come i teatrologi si stanno appassionando a dibattere. Ritengo dunque sia giusto che un teatro nazionale apra spazi di ricerca e riflessione intorno alle evoluzioni del linguaggio teatrale. Una proposta come quella de La classe operaia va in paradiso mette sul piatto un problema drammatico della nostra contemporaneità, quello del lavoro. È una questione drammatica innanzitutto per la sua assenza, nonostante la Costituzione dica che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Eppure l’esperienza quotidiana, anche in rapporto ai giovani, ci mostra come il lavoro non serva più a nulla. Come contraltare ulteriormente drammatico del tema del precariato, ci sono le condizioni di lavoro in cui si opera. La cronaca di queste ultime settimane ci mostra come la sicurezza sul lavoro, e in generale il tema della tutela, sia da discutere. Per altri aspetti, lavorare su un film ci ha permesso di riflettere sulle possibilità della narrazione scenica, anche da un punto di vista strettamente linguistico. [caption id="attachment_1571" align="alignnone" width="890"] ph Giuseppe Di Stefano[/caption] Perché per raccontare questo tema avete scelto proprio La classe operaia va in paradiso, film criticato da ogni fronte? Credo che ci siano due elementi di interesse in rapporto a questa pellicola: uno è quello tematico della dimensione del lavoro. Di certo il precariato della contemporaneità è distante dal mondo della classe operaia degli anni ’70, ma ci sono dei fili conduttori che legano nella discontinuità quel mondo a questo mondo, o per Lulù Massa «…quell’inferno a quest’inferno». In questi giorni mi è stato chiesto più volte quale sia classe operaia che oggi va in paradiso. Forse ci vanno dei lavoratori, ma non la classe operaia, perché manca la coscienza e il concetto stesso di classe. Questo venir meno, accende la lampadina su un’altra ragione di interesse del film, che ci parla di un’Italia che non esiste più, in cui il conflitto ideologico e l’elemento rivoluzionario sono qualcosa di ancora evidente, seppur a rischio di svuotamento. Sanguineti, nel finale di un piccolo saggio che si intitola Come si diventa materialisti storici (2006), dice: «La tragedia oggi è che il 98% della popolazione vive in condizioni di proletariato o sotto-proletariato ma non sa di esserlo». È proprio questa assenza di coscienza che mi impressiona e ritengo vada messa in discussione. Il film è stato così fortemente contestato proprio perché si installa all’interno di questo dibattito, evita di schierarsi contro uno sguardo genericamente di destra o di sinistra, pur in modo eterodosso come fanno Petri e Pirro, mostrando le contraddizioni del movimento studentesco e del sindacato. In quegli anni, stava proprio lì la dinamica propulsiva della cultura. [caption id="attachment_1573" align="alignnone" width="890"] ph Giuseppe Di Stefano[/caption] Chi sono i destinatari di questo spettacolo? Tutte le volte che si compie un gesto creativo, o meglio comunicativo, si ha in mente un destinatario ideale, un soggetto potenzialmente in grado di cogliere la portata del messaggio stesso. Devo dire che mai come in questo caso, in rapporto ad altre operazioni fatte negli anni, il destinatario ideale ha un profilo sfuggente. Credo sia una comunità presa nella sua accezione più larga. Questo spettacolo può parlare a chi negli anni ‘70 c’era e che assapora, in questa esperienza, quasi la valenza proustiana di un tempo perduto. D’altra parte è interessante anche un confronto con i giovani che quel mondo non l’hanno vissuto e quella pellicola non l’hanno conosciuta. Inoltre, il film tocca indubbiamente delle corde scomode, ma in fondo è un altro caso di commedia all’italiana. L’archetipo che soggiace al film, infatti, a partire dalla forza stessa degli interpreti, si porta dentro una grammatica che, a una fruizione immediata, sfugge, ma se la si guarda con attenzione emerge tutta: quella della commedia all’italiana degli anni ‘70. Invece, dal punto di vista registico come ha tradotto il concetto di massa e fabbrica in scena e come sono state adattate le questioni degli anni ’60 e ‘70 alla nostra contemporaneità? La fabbrica vive attraverso un elemento scenico che è un po’ la matrice generativa dell’immaginazione dello spettacolo: un nastro trasportatore dalla duplice funzionalità. Per un verso è il nastro trasportatore della catena di montaggio, per l’altro traduce scenicamente il movimento della macchina cinematografica. In questo si percepisce la staticità della figura umana e il dinamismo della macchina da presa. A partire da questo, abbiamo cercato di creare metaforicamente e per sineddoche la dimensione della fabbrica. L’elemento utilizzato per rappresentare la massa invece è la proiezione che d’altronde non poteva mancare in una messa in scena a partire da un film. Ho sempre trovato molto curioso e stimolante il fatto che gli elementi che hanno determinato il collasso della drammaturgia borghese alla fine del diciannovesimo secolo, comprendessero proprio l’irrompere della dimensione di classe, che segna il pensiero marxiano. Formalmente si guarda alla crisi del dramma borghese attraverso gli occhi di Pirandello, di Ibsen, Strindberg o Cechov, quindi è tutto più tarato sul tema dell’interiorità, della crisi e conflitto intersoggettivo legato allo sprofondamento del singolo nella sua interiorità. Un altro elemento di crisi della struttura del dramma borghese, però, è proprio l’avvento dell’io collettivo, della classe. Questo spinge a cercare altri modi di raccontare la collettività. Oltre a Strindberg o Ibsen o Cechov, sarebbe allora interessante guardare a questo modo di raccontare il teatro. Alla luce del percorso che ha raccontato, crede dunque sia possibile fare teatro politico oggi senza cadere in una sorta di nostalgia per le grandi ideologie? Non so se sia possibile, so che si deve. Di certo non possiamo aspirare a un teatro politico alla maniera di Brecht o Piscator, perché il loro tempo è finito da un pezzo. Il rischio di cadere nel nostalgico, o che il lavoro attorno a determinati temi venga percepito come tale, c’è sempre, ma questo timore non deve bloccarci. Sicuramente affrontare e raccontare le grandi ideologie diventa pericoloso se non le si contestualizza e non le si affronta con le giuste distanze critiche. Ilaria Cecchinato, Ornella Giua, Sofia Longhini]]>

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