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Il teatro nasce in Valsamoggia. Dialogo con le Ariette per i “Territori da cucire” 

di Altre Velocità

Dal 2 al 19 agosto si svolgerà in Valsamoggia Territori da cucire, un progetto a cura del Teatro delle Ariette. La Valsamoggia è un cosiddetto “Comune sparso”, nato nel 2014 dalla fusione di cinque comuni dell’area metropolitana bolognese. Dalla pianura produttiva densa di capannoni alla collina con casolari e campi scoscesi, dalle arterie stradali lungo l’asse della Vignolese alla provinciali che salgono verso Monteveglio e Savigno, a prima vista il territorio comunale si estende in modo stratificato, non unitario. Quest’anno Territori da Cucire porterà due diverse produzioni, attorno alla domanda carveriana/pasoliniana: Parliamo d’amore? Dal 2 al 6 lo spettacolo Di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?, realizzato dalle Ariette insieme al Collettivo di ragazzi e ragazze under 30 “La Notte”; dall’8 al 19 verrà invece presentato Teatro di terra, storica produzione della compagnia. In entrambi i casi, si tratta di due turné ospitate in luoghi non teatrali: polisportive, bar, parchi, centri sociali, agriturismi. Luoghi della socialità, che il teatro scommette di potere abitare.

Noi seguiremo 
Territori da cucire da dentro, a stretto contatto con il lavoro del Collettivo La Notte. Cercheremo di incontrare le diverse persone che rendono possibile il progetto: oltre agli artisti, i componenti del laboratori, i gestori dei bar, gli spettatori, gli amici. Di che cosa parliamo, quando parliamo di spettatori? È una domanda che ci porremo insieme ai ragazzi e le ragazze, in un laboratorio appositamente pensato per affiancare il percorso. Pensando ovviamente allo spazio dell’arte, e del teatro, nella vita quotidiana di ognuno.



Cominciamo a raccontarvi il percorso con una chiacchierata introduttiva con Stefano Pasquini e Paola Berselli, fondatori con Maurizio Ferraresi delle Ariette, inventori di quel “teatro da mangiare” e “teatro nelle case” che contraddistingue la loro poetica, una ricerca che nelll’autobiografia individua le tracce di discorsi collettivi. Un teatro intimo e politico, dunque. Da loro ci siamo fatti raccontare le motivazioni che li hanno spinti a lavorare con un gruppo di giovani non-professionisti, ripercorrendo anche le precedenti tappe di Territori da cucire, nato nel 2015. Trascriviamo l’intervista in forma di dialogo, ripercorrendo l’andamento di “domande in atto” che Stefano e Paola possiedono sempre in ogni conversazione.

Territori da cucire

Stefano Pasquini – Territori da cucire nasce nel 2014, lo stesso anno in cui Bazzano, Castello di Serravalle, Crespellano, Monteveglio e Savigno si fondono nel Comune di Valsamoggia. In quel momento sentiamo di voler dare una risposta a questa nuova situazione e, per la prima volta fuori dalla sede delle Ariette, decidiamo di portare nel nostro territorio lo spettacolo Teatro da mangiare?. Lo abbiamo presentato in situazioni “estreme”, nelle frazioni, nelle case private, disposti a farci “massacrare” dalle automobili che passavano a 100 metri dalla sala. Accanto alla turné abbiamo realizzato il documentario Valsamoggia, la vita attorno a un tavolo insieme a Stefano Massari, presentando le storie che il pubblico ci raccontava al termine dello spettacolo. Quella doveva essere la nostra “risposta”, però il territorio ha a sua volta reagito in un modo che non ci aspettavamo, con grande disponibilità, dimostrandoci che il teatro per quanto particolare, fatto attorno a un tavolo, poteva ancora mettere in moto delle questioni al di fuori del suo contesto di riferimento.

Paola Berselli – Per noi è stato anche un modo, dal punto di vista emotivo, di “riconciliarci” con il nostro territorio. Dal ’97 facciamo Il teatro nelle case, una rassegna dove ospitiamo spettacoli di altri artisti. Da molto prima lavoriamo alle Ariette. Siamo un riferimento teatrale, senza dubbio, ma forse proprio per questo siamo sempre rimasti abbastanza estranei ai paesi e alla loro vita quotidiana. Ora volevamo uscire dalle Ariette, presentando il nostro lavoro.

Il teatro, il territorio

S – Siamo tornati da quelli che negli anni ci avevano proposto di fare Teatro da mangiare?alla sagra del cinghiale e a cui abbiamo sempre risposto che non era possibile… Questa volta abbiamo chiesto noi di ospitarci, ma con un progetto nostro a casa loro, non alla sagra.
Ci siamo dunque detti di rilanciare e di proseguire, unendo il percorso costruito insieme al Collettivo La Notte. Sono un gruppo di ragazze e ragazzi che ha l’abitudine di radunarsi in un bar a Monteveglio e che ci aveva chiesto di “fare” teatro con loro, all’inizio del 2014. Da lì è nato un percorso che ha portato alla realizzazione di alcuni eventi teatrali, percorso che si è naturalmente incrociato con il Laboratorio permanente di pratica teatrale che facciamo al Deposito Attrezzi dal 2010. Lo spettacolo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?, esito di Territori da cucire 2016, proviene da qui.

Al lavoro con i ragazzi e le ragazze

S – Il lavoro con i ragazzi e le ragazzi dà il senso del procedere quest’anno. È un’esperienza di teatro fatta con persone alle quali del “teatro” sembra possa importare poco, si realizza in spazi molti distanti da quelli tradizionali… eppure anche in queste condizioni il teatro può accadere. Porteremo infatti Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? dal 2 al 6 agosto in luoghi dove abitualmente non si vede teatro, dando seguito al nostro “deragliamento”; oltre alla turné dello spettacolo abbiamo scelto di produrre un secondo film con loro come protagonisti. Sembra il punto di partenza per un lavoro sociale, eppure teatralmente può essere rivoluzionario. All’inizio non ti immagini, con tutti i limiti del caso, che il teatro possa nascere così. Con dentro il desiderio, del teatro stesso, di farsi anche un po’ “sbranare”. Forse questo è accaduto anche grazie al carattere nostro e dei ragazzi, che amano le sfide.

P – Ricordiamoci però che questo processo è scaturito da noi! Siamo noi che lo abbiamo voluto e lo abbiamo scelto. E tu lo sai bene… di fatto senza il nostro intervento tutto questo non sarebbe avvenuto. Da parte nostra mi pare ci sia una coerenza di lavoro, che comincia dal Teatro nelle case, un percorso di super nicchia, mentre qui tentiamo di andare fino in fondo, tentiamo di fare quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di proporre. Con alcuni lavori possiamo entrare direttamente nel rapporto che il nostro teatro costruisce “fuori”, puntando alla costruzione di relazioni. Un lavoro inusuale sui luoghi e con gli spettatori. Si mostrano delle possibilità anche alle amministrazioni, si dimostra che i luoghi possono ospitare eventi di un certo tipo. Si fa vedere al pubblico un teatro che solitamente non vedrebbe. L’anno scorso abbiamo fatto una turné in aziende agricole, centri sociali, sale polivamenti con Teatro da mangiare?, quest’anno replicheremo l’esperienza con Teatro di terra. Per noi è come se ripercorressimo a ritroso il nostro fare artistico, mostrandolo nel territorio.

S – Stiamo pensando a Territori da cucire come a un progetto che può continuare. Per esempio immaginiamo di coinvolgere le comunità straniere, di andare nei luoghi dove queste persone abitano. La cosa importante infatti è che noi non arriviamo nei luoghi e ce ne andiamo, ma facciamo un percorso di incontro e relazione lungo con le persone che ci ospitano.

P – C’è una lunga fase preparatoria di contatti e dialoghi, nelle quali le persone diventano tutto sommato dei co-organizzatori degli spettacoli.

S – La funzione del film, poi, è essenzialmente quella di costruire relazioni, oltre a quella di documentare ciò che è accaduto. Negli ultimi mesi siamo stati con i ragazzi in diversi bar e luoghi, abbiamo costruito il set dicendo «ok, adesso qui parliamo d’amore». È un percorso che inevitabilmente prepara il terreno, che fa nascere una relazione prima e oltre lo spettacolo. Il principio di Territori da cucire è costruire legami, relazioni fra le persone.

Il teatro fuori dai teatri

P – Si tratta di dare valore alle persone, parlare, discutere, chiedere. Questo che sta per iniziare non è un festival internazionale, non siamo nell’attività legata a un grande teatro. Sono contesti nei quali, quasi esclusivamente, gli eventi proposti hanno valore ricreativo. Non c’è nulla di male, ma ricordiamoci che non esiste nulla di diverso, non esiste niente legato all’ambito del pensiero. Non si è più abituati a ragionare su quello che si vede, si è fruitori ma non spesso non si ragiona su quanto si vede.

S – In questi territori, occorre arrivare al teatro cercando di “nasconderlo”. Come una puntura, va fatta senza che ce ne si accorga! Se il percorso “odora” di teatro non va più bene.

P – Il teatro può essere anche una cosa diversa da quella che la maggior parte delle persone conosce. Si ha, come sappiamo bene, un’idea di teatro chiusa, vecchia.

S – Il confronto con l’idea di teatro è in riferimento a quello che si trova sui media: scenette sul web, o i film… il teatro, spesso, soprattutto per i ragazzi è quello che viene fuori dall’immaginario dei media di massa odierni, e su questo occorre lavorare. Occorre accettare questa sfida, farla nostra.

Che cosa si pensa del teatro, dell’arte

P – Ma i ragazzi con cui lavoriamo, che cosa hanno nella testa? È importantissimo capirlo, scovarlo. A volte sono loro che ci chiedono di inserire elementi “più teatrali”. Ci chiedono «facciamo una cosa con le battute». In testa hanno dunque idee precise. Vengono da noi e ci dicono: «Paola, vedi che non lo fa bene? Mettiamo una battuta qui, un’altra qua. Vedi che non lo sta facendo bene?»

S – «Oh, Pasqui, non voglio insistere, ma la mia idea di fare la Divina Commedia un po’ rimodernata secondo me è importante…!»

P – Noi su questo cerchiamo di essere fermi nelle nostre posizioni, andiamo avanti. Eppure sappiamo che c’è tanto nella loro testa, opinioni, idee, spunti. Su questi occorre costruire confronti, dialogare, discutere.

Costruire un percorso nel tempo, nel territorio

S – Quando abbiamo cominciato, il Collettivo di per sé non esisteva. C’era un centro giovanile, con alcuni ragazzi che lo tenevano in piedi. Ci hanno chiesto di fare qualcosa per il 27 gennaio, giornata della Memoria. Dal cazzeggio al serio, abbiamo lavorato, ci siamo trovati molti bene e ci siamo detti di volere continuare, perché non è mica obbligatorio continuare, a volte ti puoi anche fermare…

P – Che a volte sarebbe meglio!!

S – A volte sarebbe meglio, lo dico ogni volta! Scherzi a parte, probabilmente anche nel nostro percorso c’era il desiderio di portare avanti le domande che ci stavamo ponendo insieme. Il riscontro è stato inaspettato. Trovarsi in questa piazza-non-piazza di Monteveglio, dove solitamente non accade nulla, mentre la sera del 27 gennaio 2014 si è presentata una fiumana di gente…. tutti commossi, contenti. Ma il primo riconoscimento, per noi, riguardava il fatto che il “fare teatro” piaceva ai ragazzi. Avevamo lavorato su La notte di Elie Wiesel, e da lì è nato il “Collettivo La Notte”.

P – C’era una scena con una persona con un’arma finta  che diceva i nomi dei ragazzi. Questi cadevano a terra morti uno dopo l’altro. Una scena che univa contenuto e forme dell’oggi, un misto fra cinema, immaginario “pulp” e loro emotività personale. Un momento in cui “precipita tutto” e tutto si condensa.

S – Chi si salva e chi no? Ci si salva anche a scapito degli altri?  La domanda ricorreva e risuonava, e il solo fatto di avere la possibilità di cambiare l’ordine di chi moriva, dicendo un nome prima dell’altro, creava una tensione speciale, molto forte.
In seguito abbiamo lavorato sull’autobiografia, abbiamo capito che a loro non interessava tanto fare esercizi, fare “il teatro”, ma era importante concentrarsi su progetti specifici. Per esempio, quando non c’erano spettacoli imminenti l’appuntamento era per le 20 ma non riuscivamo mai a trovarci tutti prima delle 21, segno che le vite fuori dal teatro in realtà devono restare molto importanti. Dopo un primo momento di lavoro in una sala comunale a Monteveglio, ci siamo spostati da noi, al Deposito Attrezzi. Abbiamo lavorato sull’autobiografia con lo spettacolo Noi, poi sull’Odissea. La domanda era come non fermarsi a una dimensione totalmente autobiografica, proponendo materiali diversi. In Noi siamo partiti dall’autobiografia, usavamo un testo nato da improvvisazioni collettive da me trascritto. Vedendo quello che emergeva, abbiamo pensato di iniziare a introdurre per esempio Beckett. Si è creata una dinamica di “gioco” attorno al testo, chiamavamo in causa Beckett, lo evocavamo…

P – Chiedevamo loro: chi è Beckett?

S – E loro rispondevano «Un drammaturgo, inglese… irlandese… sarà del ‘700!». Beckett è stato anche il viatico per arrivare al testo che è alla base dello spettacolo Di cosa parliamo quando parliamo di amore?, il libro Mi ami? Di Ronald D. Laing. Testi con i quali giocano e continuano a giocare.
Una questione che ci colpisce sempre è che le prove sono lontanre dall’idea comune che abbiamo di questo concetto. Proviamo oggi, ma domani i ragazzi e le ragazze non ripetono la stessa cosa, cambiano. Non faranno mai una prova tecnica, per quanto ce ne sarebbe bisogno!

P – Questi ultimi testi hanno la facoltà di permettere di giocare, sono testi brevi, incisivi, basati sulla relazione. Per loro è una griglia chiara.

S – Hanno fatto una specie di miracolo, secondo me. Al laboratorio dei grandi, delle signore, c’è una forma mentale precisa, emerge subito un’idea di teatro che hanno in mente. Invece i ragazzi prendono un testo e lo fanno in siciliano, lo accendono, ci giocano davvero. Non avevo una grossa fiducia sul fatto che questo sarebbe accaduto. L’esperienza diretta insegna che il gioco fa nascere delle questioni teatrali. Al punto che se adesso chiedessimo loro da chi è stato scritto un determinato pezzetto di testo, forse non saprebbero del tutto rispondere.

P – Il testo di Laing è composto da frasi e pensieri che si susseguono, permette di “pescare” e buttarsi. Senza contare la memoria che riescono ad avere. Una delle repliche di aprile un ragazzo è stato male ed è stato sostituito da un altro che ha fatto tutto al suo posto, ma a modo suo, reintepretandolo.

S – Noi siamo sempre lì a farci delle domande, sul teatro. E in qualche modo vien da pensare che non abbiamo ancora capito nulla, al confronto della libertà che è in grado di prendersi chi adesso è giovane, chi inizia.

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