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”Il teatro è vibrazione”: intervista a Mirza Metin

di Francesco Brusa

Un teatro attento alle diversità e alle minoranze, con particolare propensione verso la cultura e le pratiche narrative curde. Mirza Metin è il fondatore di Şermola Performans, gruppo teatrale indipendente con sede a Istanbul. Ci ha raccontato il suo percorso artistico, gli inizi durante il conflittuale periodo degli anni ’90, con uno sguardo anche alle recente repressione governativa.

Ci puoi raccontare come nasce Şermola Performans?

Nel 1994 ho iniziato a studiare teatro e drammaturgia a Istanbul, da un punto di vista teorico però. Mi sono concentrato soprattutto sulle tradizioni di recitazione e danza folklorisitiche, dando nel tempo un indirizzo fortemente antropologico alle mie ricerche.
È dal 2008 che ho la mia propria compagnia e il mio proprio luogo in cui mettere in scena spettacoli. Non riceviamo alcun fondo statale quindi sì, possiamo dire che siamo un teatro indipendente. Tuttavia, quella di intraprendere un percorso indipendente non è stata propriamente una scelta. A me sarebbe piaciuto lavorare nel circuito statale, ma è qualcosa di veramente difficile soprattutto se hai origini curde come nel mio caso. Ho fatto alcuni tentativi, presentando miei spettacoli al teatro di Istanbul e a quello di Diyarbakır, ma non ho ricevuto alcuna risposta. Purtroppo in Turchia, la lingua che utilizzi definisce già una “posizione politica”. Dunque sono sostanzialmente le difficoltà e le vicissitudini legate alle mie origini ad avermi spinto verso un percorso teatrale autonomo.

Parliamo di queste origini curde. Come hanno influenzato il tuo teatro?

Nel 2001 ho iniziato a condurre delle ricerche riguardanti le forme di recitazione e narrazioni curde. Come accennavo, il mio interesse al principio era puramente teorico, non pensavo potessero arrivare a far parte del mio proprio metodo teatrale. Col tempo ho però cominciato a utilizzarle in modo molto naturale, lavorando assieme ai miei attori sul nostro primo spettacolo.
Penso che le tradizioni curde, ma in generale tutti i tipi di narrazione legati all’area mesopotamica, siano un bacino ricchissimo di spunti per quanto riguarda l’arte del racconto, sia in termini di argomenti affrontati che di tecniche e modalità. Il dengbej (di cui avevamo parlato qui) è una tecnica che spinge gli attori ad acquisire una profonda consapevolezza del proprio corpo e della propria espressività. Si lavora allo stesso tempo con il petto e con il diaframma, si pone grande attenzione alla vocalità. Basandomi su questa pratica ho creato degli esercizi che aiutano gli attori a capire esattamente cosa si sta muovendo nel loro corpo, quali impulsi lo attraversano e quali vibrazioni. Questo è il punto: nel momento in cui il tuo corpo inizia a vibrare, stai già recitando e lo spettatore può percepire quella vibrazione, può farne parte.
Come dicevo, io e i miei attori abbiamo cominciato a lavorare sul nostro primo spettacolo muovendoci su tre differenti piani: la biografia personale dei performer, questioni generali riguardanti la società in cui viviamo e appunto la tecnica del dengbej. Si è creata una fusione molto armonica fra tutti questi elementi, che è stata di grande stimolo per l’intero gruppo e che ha infine portato allo spettacolo Disko 5 no’lu, basato su racconti e vicende del tristemente famoso carcere n.5 di Diyarbakır.

Definiresti dunque il tuo teatro un teatro di stampo politico?

Il nostro gruppo teatrale è nato in seno al movimento curdo e durante gli anni ’90 ho effettivamente prodotto spettacoli con una forte matrice politica. Trattare argomenti politici e di attualità era diventata la nostra cifra, ma verso la fine di quella decade abbiamo iniziato a dare molta più importanza all’estetica. Ci siamo trovati di fronte a un bivio: siamo artisti o siamo politici? Stiamo facendo arte attraverso la politica o, viceversa, stiamo facendo politica utilizzando l’arte? Dovevamo scegliere la nostra strada. Non è stato un processo semplice, ma un’evoluzione graduale che ha richiesto degli anni. Però, piano piano, sono arrivato a essere sempre più d’accordo con l’assunto di Jacques Ranciere: quanto più la tua arte è lontana dalla politica, tanto più è essa stessa a divenire politica. Allontanarsi dalle “cose politiche”, raggiungere una certa distanza nei loro confronti, è un modo per costruirsi una idea autonoma indipendente, non solo, per identificare i temi e gli argomenti che senti maggiormente come tuoi e per trattarli in maniera libera. Ecco, questa radicale libertà è appunto la componente politica del mio teatro.

Chi viene a vedere i vostri spettacoli? Il pubblico è cambiato nel corso del tempo?

Quando abbiamo iniziato, chi veniva a vedere le nostre performance veniva in sostanza per vedere qualcosa di attinente alla cultura curda. Ma nel corso degli ultimi tempi abbiamo cambiato percorso. Da una parte manteniamo l’attenzione verso il mondo curdo e i suoi movimenti di lotta, dall’altra ci stiamo dirigendo verso un approccio decisamente più multiculturale. Di conseguenza, anche il nostro pubblico è diventato maggiormente misto. Mi sento di poter dire che ora chi viene a vedere una nostra performance lo fa coll’intento di vedere un bello spettacolo, a prescindere dal fatto che ci siano riferimenti al mondo curdo o meno. Attiriamo spettatori dai 16 ai 60 anni d’età, fra i quali circa il 30-40 per cento è di origine curda mentre il resto è parecchio variegato.

L’attuale clima repressivo non vi sta limitando?

Certamente sentiamo l’attuale stretta governativa, ma posso dire che negli anni ’90 era peggio. A quell’epoca anche solo affittare un palco o ottenere dei permessi erano operazioni molto difficili. Mettere in scena uno spettacolo significava automaticamente un intervento della polizia, spesso anche coi panzer. Era una sorta di “performance nella performance”. Qualcosa ai limiti dell’assurdo: alcuni dei nostri spettacoli hanno l’andamento di commedie classiche, e alla fine anche i poliziotti si chiedevano: “Davvero ci hanno mandato qui per questa cosa?”
Però, c’è un fatto. Nonostante il clima non fosse dei migliori, noi come compagnia ma soprattutto il pubblico che veniva a vederci ci assumevano dei rischi. Quello che più mi preoccupa rispetto agli sviluppi attuali, più che la censura governativa, è dunque l’autocensura degli artisti e del pubblico. Si tratta di un atteggiamento che purtroppo inizia a farsi strada, lo vedo intorno a me. Eppure, è l’unico livello su cui possiamo impegnarci: se guardiamo ai periodi di crisi della nostra storia, la reazione del governo è sempre stata la medesima. Siamo noi che invece possiamo agire diversamente.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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