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Il teatro come luogo di decisione. Conversazione con Nela Antonović

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa

Nel 1984, dopo aver lavorato come ballerina nel circuito statale, Nela Antonović decide di fondare la propria compagnia: il Mimart Teatr. Si tratta di una delle prime realtà indipendenti della scena di Belgrado e, forse, la prima in assoluto che tenta di assumere un approccio contemporaneo e sperimentale al movimento. Con lei proviamo a capire le urgenze e ripercorrere l’evoluzione di un’esperienza che continua ancora oggi, trovando nuove collaborazioni e nuovi sbocchi anche molto al di fuori dei confini nazionali.

La compagnia Mimart è una delle prime compagnie teatrali indipendenti della storia serba. Quale è stata l’esigenza che ti ha spinto a iniziare un percorso di questo tipo?

Direi che la motivazione principale è stata di natura estetica: volevo portare la scena teatrale del paese a far ricerca in territori che ancora non aveva esplorato, come quelli del movimento e del teatro non verbale. Desideravo insomma che l’arte si potesse focalizzare maggiormente sul corpo, che era invece generalmente poco considerato. Oltre a ciò, c’era anche un’esigenza un po’ “anarchica” di voler incidere nella società, di voler mostrare con forza tutte le ingiustizie che osservavo quotidianamente, da donna e da persona insoddisfatta dello stato di cose in cui si trovava. In un certo senso la mia posizione di partenza è esattamente la stessa del Dah Theater, solo che loro lavorano prevalentemente con le parole mentre io col movimento. C’era dunque un intento “politico”, l’arte era anche un mezzo per poter mettere in luce alcuni fenomeni sociali o per portare all’attenzione del proprio governo alcune istanze. Ma da questo punto di vista il mio approccio non è mai stato diretto: non ho mai fatto un teatro satirico o di polemica, ho sempre cercato di affrontare le questioni che mi sono posta nella loro complessità.
Forse, però, alla base di tutto c’era la volontà di mostrare al pubblico un diverso tipo di “temporalità” teatrale, sentivo cioè l’urgenza di indagare quella che è la dimensione rituale della danza e del corpo. Specialmente oggi, si tratta di un’attitudine esistenziale oltre che artistica assolutamente da recuperare. Abbiamo accelerato il tempo e lo abbiamo spezzettato in un flusso di istanti infinitesimali, di “input” ai quali reagiamo senza chiederci il perché. In un contesto simile si perde qualsiasi contatto con il proprio Io profondo e non si chiudono le porta a qualsiasi comunicazione interpersonale e intrapersonale. Al contrario, il rito serve proprio a riconoscere le motivazioni ultime delle proprie scelte, in primo luogo quelle artistiche. Ma, aggiungo, non credo che la pratica teatrale debba esaurirsi in tale dimensione. Nei miei spettacoli sono brevi i momenti in cui ricerco questa “dilatazione” del tempo, si tratta quasi di “intervalli pubblicitari” per poi ripartire con lo svolgimento della performance. L’intento è quello di mostrare lo scarto, il gradino che separa il rito da tutto il resto per rendere l’esperienza di esso ancora più potente.

Come si è evoluto il tuo approccio teatrale in tutti questi anni?

Il mio percorso ha preso diverse direzioni, sotto vari punti di vista. Innanzitutto, il linguaggio che ho utilizzato si è fatto sempre meno ermetico. Se penso agli inizi i miei lavori avevano quasi sempre una componente quasi “mistica” e, forse, erano anche maggiormente legati a componenti personali che vanno via via sfumando. Poi, il processo creativo è diventato sempre più collettivo e anche l’identità del gruppo Mimart, che era puramente artistica, si è “ibridata” legandosi magari all’attivismo politico o collaborando con associazioni che hanno istanze sociali (uno dei nostri ultimi spettacoli parte da laboratori con giovani affetti da disabilità). Penso infatti che un certo modo di essere “indipendenti”, vale a dire ritagliandosi il proprio spazio di libertà certamente onesto ma in fin dei conti piccolo, abbia un po’ esaurito la sua ragion d’essere. Questo è un momento in cui non solo è possibile ma è anche doveroso confrontarsi con realtà più grandi, cercare di portare la ricerca nei teatri statali.
Coerentemente con l’evoluzione di tali presupposti, anche il mio approccio individuale alla danza e il mio ruolo all’interno della creazione di una performance è cambiato. Come dicevo, prima il teatro era per me un laboratorio, una continua sperimentazione su me stessa attraverso il corpo. Ora la mia funzione è più quella di “mentore” che supervisiona il processo, cercando innanzitutto di innestarlo.  Col tempo dunque la mia esigenza primaria è passata dalla necessità di elaborare una “poetica” a quella di mettere a punto una “pedagogia” efficace.

Ci puoi descrivere questa pedagogia?

Nonostante il mio lavoro sia incentrato sul corpo, la fase iniziale della creazione di una performance è assolutamente basata sulle parole: c’è generalmente un tema di partenza che viene approcciato in maniera molto intellettuale, costruendo una vera e propria bibliografia su di esso. Dopodiché discutiamo per un periodo di tempo anche molto lungo, confrontandoci e magari scontrandoci su quelle che sono le nostre opinioni o le nostre sensazioni sull’argomento. L’intento è ovviamente quello di arrivare a idee o visioni condivise ma, da parte mia, si tratta soprattutto di capire quali sono le motivazioni profonde di chi parteciperà allo spettacolo e, di conseguenza, il ruolo che gli sarà più consono all’interno di esso. Perciò dopo questa fase “propedeutica” ci dividiamo solitamente in gruppi che seguono il proprio percorso di ricerca sul tema coi mezzi che sentono più vicini alle proprie intenzioni. Ma, ecco, la cosa fondamentale è forse che non c’è spazio per alcun “tecnicismo”: ogni persona che collabora alla performance non porta una competenza pregressa di cui potersi servire ma dev’essere completamente coinvolta a livello umano. Le competenze si creano attraverso il processo e non sono date a priori, devono scaturire dalla propria posizione personale nei confronti dell’argomento scelto o del modo in cui questo viene trattato. Per tale motivo, collaboro sempre con persone che hanno interessi, studi e carriere diverse fra loro: credo che il futuro del teatro si sempre più “transmediale”. Io stessa prima di avvicinarmi alla danza ho compiuto studi scientifici e filosofici.

Al termine di tale processo non c’è l’esigenza di dover conferire armonia al tutto? Chi prende le decisioni finali e quali sono gli effetti che si vogliono raggiungere dal punto di vista estetico?

Molte volte ho io la parola finale sulla messa in scena ma questo avviene sulla scorta di quello che è stato identificato collettivamente come “elemento chiave” dello spettacolo. Voglio dire che attraverso il processo creativo fuoriesce spesso ciò che sarà l’elemento estetico portante della performance e su cui si baserà visivamente tutto il resto. Pertanto, nel momento della messa a frutto del percorso laboratoriale, la collaborazione si fa più intensa con chi si è occupato dei costumi, oppure del movimento degli attori, oppure ancora dell’apparato video o fotografico, dipende. Ma l’obiettivo principale è inserire il pubblico in un processo di scoperta del “fenomeno” che abbiamo scelto di descrivere, non tanto restituirgli un immagine veritiera (men che meno esteticamente bella in senso classico) di quest’ultimo. Perciò, direi che il principio che mi guida è un principio provocatorio, non nel senso di voler apparire scandalosi o eccessivi bensì come intento di voler appunto provocare il pubblico a entrare in un percorso cognitivo di un certo tipo. A volte in maniera frontale, altre in maniera più partecipativa: la nostra prossima performace (all’interno del progetto interazionale “The complete freedom of truth”) sarà sul concetto di “democrazia” e di “confini” e gli spettatori (che siederanno in un’aula simile a quella di un parlamento) saranno chiamati a decidere attraverso il voto l’andamento dello spettacolo, quello cui vogliono o non vogliono assistere. Si tratta di una via rischiosa ma la scommessa è che il teatro possa essere infine un “luogo di decisione”.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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