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Il rivoluzionario Shakespeare di Palminiello: quando il pubblico diventa complice 

di Altre Velocità

A teatro a vedere Shakespeare, oggi, ci andiamo con gli occhi di chi conosce cosa è successo dopo. Tante sono e sono state le rivisitazioni delle sue opere che hanno apertamente immesso l’attualità nella messinscena: si può dire, quindi, rivoluzionaria la scelta di Renata Palminiello di mettere in scena un riadattamento del Riccardo III di Shakespeare (con inserti dell’Enrico VI) senza pretese interpretative che ne offuschino e confondano la vicenda originale. Quello che vediamo altro non è che il compiersi della tragedia di Riccardo III, Duca di York (da qui il titolo della messinscena) e della sua famiglia, dilaniata da una crudele guerra intestina e familiare. Il pretesto è lo scontro civile tra le due famiglie, Lancaster (Rosa Rossa) e York (Rosa Bianca), ben identificate negli stendardi posti ai lati del proscenio, che si alternano nei colori rosso, bianco e nero per il lutto. Ad arricchire il progetto, la scelta di miscelare attori professionisti (tra questi figura anche Massimo Grigò, conosciuto e apprezzato dal pubblico pistoiese) con non professionisti e alcuni ragazzi dei licei pistoiesi. Questi ultimi hanno contribuito in veste di attori o alla realizzazione degli oggetti di scena (nello specifico gli studenti del Liceo artistico P. Petrocchi); un lavoro corale per un’opera corale.
Il lavoro della regista è evidente non tanto nelle operazioni effettuate sul testo, rielaborato a più mani con i suoi collaboratori (Matteo Tortora ed Elisa Cuppini), quanto nel rapporto tra spazio e attori, studio che le proviene dagli anni di lavoro con Thierry Salmon. Il Teatro Manzoni per l’occasione ospita lo spettacolo in platea, godendo così dell’ampia sala e dell’intero palcoscenico. Gli spettatori occupano solo i primi due ordini di palchi e non interamente. Il coinvolgimento della messinscena è totale: non solo perché ci sentiamo come catapultati in una dimensione da Globe Theatre, ma anche perché gli attori si muovono sotto di noi, tra di noi e intorno a noi. Le teste si sporgono dalle balaustre dei palchetti, col mento poggiato sul velluto rosso, incuriosite da questa scelta insolita. Immersi nel fatto teatrale, non possiamo esimerci dal farne parte. L’intero teatro percepibile dalle nostre sedute è abitato dalle trame di Riccardo (Gabriele Reboni). Ci sentiamo coinvolti, quasi complici, e a renderci tali contribuisce Lord Buckingham (l’attore Jacopo Trebbi credibile nella parte) rivolgendosi direttamente a noi in qualità di ‘cittadini’; un atto di responsabilizzazione del pubblico non velato né sublimato, la cui naturalezza non rischia di scivolare in provocazione. Ognuno ha il proprio ruolo: gli attori sotto di noi, in platea, sembrano lì da tempo immemorabile, spettri di quel teatro shakespeariano, diventato nella storia simbolo di se stesso. Il palcoscenico, dove dapprima è celebrata la gloria della casata di York, riunita attorno al trono d’Inghilterra, va man mano popolandosi delle tombe degli uccisi, trasformandosi in un vero e proprio cimitero di legno.

Tutto avviene sotto i nostri occhi e ogni azione è preferita alla sua enunciazione, le immagini di morte e di guerra non ci vengono risparmiate; perché quella lotta ambiziosa per il trono – uno scomodo sgabello di legno dalla forma piramidale e dal sedile stretto, apice della scalata al potere – non è avara di sangue. La ferocia con cui viene assassinato il giovanissimo principe Edoardo (Sena Lippi) è tale da scatenarne l’aleggiante e costante presenza per tutta la tragedia; ci appare cadavere freddo esangue tra le braccia della madre Margherita (Rosanna Sfragara) e fantasma negli incubi dei suoi assassini. La Lippi dimostra una padronanza fisica notevole nella rappresentazione della morte, resa ancor più agghiacciante nella scena della maledizione dall’interpretazione della Sfragara, vera anima straziata, madre ancor prima che regina, cui hanno strappato insieme alla corona il sangue del suo sangue. Riesce impossibile l’indifferenza di fronte alla sua camminata barcollante ma decisa, lo sguardo fisso sugli assassini del figlio. È teatro d’azione questo, dal quale emerge il lavoro profondo effettuato sui personaggi dalla regista con gli attori. Così anche le altre regine, madri, vedove e orfane dei figli ci appaiono diverse tra loro, al di là dell’archetipo, portatrici di una loro storia personale e di proprie cicatrici: Lady Anna (Sofia Busia), la Duchessa di York (Carolina Cangini) e la Regina Elisabetta (Daniela D’Argenio) tutte quante calate profondamente nel personaggio. Le figure sono molte e sarebbe difficile, anche se interessante, potersi soffermare su ognuna di loro.  Aver reso degni di nota tutti quanti i personaggi della tragedia è sicuramente uno dei meriti più pregevoli dello spettacolo.

In Riccardo non individuiamo, perciò, il solo protagonista della complessa vicenda corale. È Gabriele Reboni – attore e illusionista, di formazione circense oltre che attoriale – a interpretare il crudele e insensibile Duca. Privato, per volontà della regista, dei connotati fisici che lo vorrebbero deforme e gobbo, coltiva la malformazione nell’anima. Seppure la fame che lo contraddistingue sia la stessa degli altri personaggi, tutti quanti colpevoli redenti in punto di morte, egli non trema di fronte a niente. Laddove anche il più fedele dei suoi collaboratori, Lord Buckingham, ha degli scrupoli, egli continua a sprofondare senza pietà. Reboni rende la magnificenza del personaggio storico tanto quanto la grettezza dell’animale, restituendone l’instabilità che lo rende insaziabile di potere, senza esasperare in modo caricaturale il modus recitandi.
Nel clima tetro, altalenante tra sogno e realtà, accompagnato dalla suggestiva colonna sonora – eseguita live dagli attori e dai musicisti della Scuola di musica Mabellini di Pistoia – il confusionario (ab)uso del nome di Dio impastato dall’acustica di questo ‘teatro di morte’, risuona potenzialmente fraintendibile col pronome personale ‘Io’, quasi a evidenziare il peccato di hybris commesso dai personaggi. Un sospiro di sollievo si leva dai palchi, quando il crudele sovrano muore al famoso grido “Il mio regno per un cavallo!”. Avvertiamo l’effetto suspence con quell’intensità cinematografica – azzarderei televisiva – che nel tempo è andata perdendosi nella messinscena di certo teatro.
Siamo grati per questo risultato alla compagnia, amalgamatasi alla perfezione, la cui diversità completa e arricchisce lo spettacolo. “Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte” scrive Shakespeare nell’Antonio (atto I, scena I). Così anche noi spettatori abbiamo recitato la nostra parte.

di Giulia Bravi

foto di Matteo Tortora

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