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Il pianeta irritabile o una cronaca dello spettacolo "Li buffoni" con gli attori di Arte e Salute

di Altre Velocità

Li buffoni, lo spettacolo tratto da un canovaccio di Commedia dell’Arte di Margherita Costa e scritto sotto forma di testo unico dagli attori di Arte e Salute attraverso un percorso di ricerca durato mesi (ancora fino a domani 4 marzo all’Arena del Sole di Bologna, poi dal 6 al 18 marzo al Teatro delle Passioni di Modena). La compagnia, guidata da Nanni Garella, dal 1999 ha realizzato oltre venticinque produzioni, coinvolgendo sulla scena soprattutto attori e attrici affetti da disturbi psichiatrici e affiancando alla produzione di spettacoli anche un’attività di formazione presso centri di salute mentale di Bologna. In questo lavoro, con l’avanzare della narrazione e il manifestarsi dei caratteri dei personaggi, il pubblico scoprirà ben presto di trovarsi di fronte a “un mondo dopo il mondo”, un’isola, separata dal resto del pianeta dei viventi da tempi ormai incomputabili e in cui le leggi civili, sociali e l’intera esistenza risultano capovolte. Ci ritroviamo di fronte a una sorta di cittadina come quella di Lilliput, inventata da Swift, o a quel lembo di terra immaginato da Bradbury alla fine del suo capolavoro letterario, ove un gruppo di uomini si rifugia e perde tutti i contatti con la società per darsi a un’esistenza altra. Lo spazio scenico, allora, diventa terreno fertile per l’annidarsi di lingue e dialetti di regioni diverse della penisola italiana e di altri paesi stranieri che entrano in contatto tra loro e generano un «italianato», contenitore di parole mischiate tra loro, generatore di un linguaggio sciolto, sfacciato e sporco, fondamento indispensabile per abitare quel «cortiletto zozzo, chinu de munnezza e senza luce». Ciascuno dei personaggi ci appare deformato, grottesco, goffo e fedele alla propria statura di non-uomo civilizzato e simile a un animale o alle figure del pittore tedesco George Grosz, che sputano fuori dalla tela volti spigolosi e ben accentuati al limite tra il macabro, il comico e l’osceno. Ciascuno di essi è un emigrato, costretto a lasciare la propria terra d’origine per risiedere oggi in un mondo parallelo, in cui vigono vecchie pratiche: come la caccia, disciplina professata dal Califfo pugliese che controlla e tiene unita questa fantasmagorica terra, la cucina a base di gatti o brandelli di volpi, le baruffe da strada e il sesso, materia cocente, irrisolvibile e non sconveniente costantemente sulla bocca di tutti gli interpreti. [caption id="attachment_1644" align="alignnone" width="850"] disegno di Vittoria Majorana[/caption] Tutti i personaggi sono delineati in maniera espressionistica, vestono alla perfezione i caratteri fisici e psicologici di questi esseri orripilanti e alieni attraverso delle movenze sgraziate, una gestualità impacciata, uno sguardo allucinato ma fortemente farsesco e incedono in modo flemmatico e pigro attraverso una cucitura scenica scandita magnificamente tra le innumerevoli entrate e uscite dei personaggi e alcune incursioni sonore dall’esterno. Un ricco bestiario eretto non artificiosamente ma germogliato grazie alla fantasia e al gioco del teatro e composto tra i tanti da un anziano croato perennemente muto e inquieto, un impellicciato meglio conosciuto come Signor della Cravatta con un accento a metà tra Roma e Milano e molto simile a un sorcio o a un sudicio usuraio, due cortigiane dagli atteggiamenti lascivi e provocanti, un nano e per di più gobbo suonatore di violino. Spicca il personaggio del Tedeschino, interpretato dallo stesso Garella, una creatura camaleontica e quasi fantasmatica, capace di mescolare a un linguaggio alto e poetico uno basso e scostumato e smascherare la sua natura di scroccone e parassita, creando superbi e divertenti equivoci e strafalcioni fino ad essere messo k.o dal Califfo nel finale. [caption id="attachment_1643" align="alignnone" width="850"] disegno di Vittoria Majorana[/caption] Questa «babilonia» di figure, come viene denominata all’inizio dello spettacolo è simile, se osservata dall’alto, alle meditazioni pittoriche sull’umano di Brueghel, protrae una danza eterna e irriverente in un tempo sospeso e nullo, la cui coreografia rispetta i meccanismi della Commedia dell’Arte: un canovaccio da cui partire per elaborare una scrittura, l’improvvisazione e il gioco come presupposto per la creazione, la coincidenza tra il ruolo dell’attore e quello dell’autore, la presenza di personaggi a una dimensione e alcuni dispositivi letterari classici destinati a muovere la trama come l’intrigo, l’equivoco, lo svelamento finale o la riconciliazione tra due fratelli come avviene negli schemi della commedia degli equivoci, per esempio nel Menecmi di Plauto. Un’azione ben precisa, una direzione specifica, destinata a rimanere irrisolta e aperta come in una buona commedia che si rispetti, spetta a ciascuno dei personaggi, donne e uomini di “boccaccesca” memoria che vivono fuori dalla città e che a turno intrecciano le loro storie in un gioco comico e funesto al di fuori dal tempo. In fin dei conti si tratta di figure tronche, sfaccendate, incompiute nella loro impossibilità di conquistare un proprio irrefrenabile desiderio e frammentarie già a partire dalla miriade di nomignoli che ciascuna di loro possiede. Esse si arrogano dei compiti, valutati, sospesi e infine contraddetti nel giro di poche ore, e consumano le loro giornate tra piaceri e vagabondaggi, come nel caso del Califfo pugliese, il tonto e crudele governatore del villaggio tanto simile al grottesco ladro del film di Peter Greenaway Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante che umilia e offende indisturbato i suoi commensali. Tutti i personaggi divorano gli avanzi di ciò che un tempo era stato loro, logorano le parole, corrodono il tempo, non hanno alcuna aspettativa, fissano il sole e l’imbrunire e abitano uno spazio indefinito a margine di una una convivenza forzata e sublime al tempo stesso. E noi con loro.

Damiano Pellegrino disegni realizzati da Vittoria Majorana

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