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(foto di Emanuela Giusto)
(foto di Emanuela Giusto)

Il perturbante spazio degli oggetti umani. Su “La trilogia del vento”

di Francesco Brusa

Affinché il vento si propaghi, serve spazio vuoto. Così il teatro di Fabiana Iacozzilli – che ha di recente presentato al Teatro Vascello di Roma La classe, Una cosa enorme e Il grande vuoto (tre spettacoli che compongono appunto la cosiddetta “trilogia del vento”) – sembra andare alla ricerca di questo spazio, lasciando bui anfratti sulla scena, concentrando l’azione e le luci solo in determinati angoli, scavando idealmente dei solchi sul palco, delle zone d’ombra, una sorta di cornice cupa che avvolge il dramma.

Con La classe – spettacolo che ha debuttato nel 2018 e vincitore di un premio Ubu – un tale meccanismo raggiunge forse il suo punto più estremo e preciso: protagonista è una marionetta-bambina, piccola e spaurita al centro di un enorme buio che è al tempo stesso l’oscurità concava dello spazio teatrale e l’opaco riflesso dello sguardo del pubblico, adulto e proprio per questo disorientato nel suo essere chiamato in causa dalla trama come una sorta di carnefice. La storia parla infatti della severa educazione che suor Lidia, maestra dal piglio inflessibile e talvolta manipolatorio, impartisce ai suoi giovani studenti. Autoritaria, manesca, e con una pronunciata peluria sopra le labbra. Gli alunni, ovvero la marionetta-bambina alla quale si aggiungono altre tre marionette-compagni di classe, la temono come si teme un potere invisibile – e infatti anche in scena suor Lidia rimane quasi sempre e solo un’evocazione, un alone di presenza, un profilo nero i cui contorni emergono attraverso il fumo di una sigaretta.

(foto di Valeria Tomasulo)

A darle maggiore consistenza, ci sono le memorie della stessa Fabiana Iacozzilli (lo spettacolo possiede uno spunto autobiografico) e le testimonianze audio dei compagni di classe di quest’ultima, ora adulti, che sono state raccolte apposta per la messa in scena e che di tanto in tanto interrompono la narrazione. C’è dunque un doppio livello: da una parte il vivido terrore che pare essere esperito dalle figure in scena, marionette tremolanti e di un’umanità oggettificata, e dall’altra la leggerezza anche canzonatoria che consente la distanza temporale, espressa dalle voci di chi ha conosciuto veramente suor Lidia e ora rammenta quelle vicende con divertita ironia. In mezzo, viene da dire, c’è il teatro nella sua concretezza fisica – che qui diventa, data la sproporzione fra le sue dimensioni e quelle delle marionette sul palco – una sorta di metafora dell’universo concentrazionario che la scuola può rappresentare nei confronti dell’individuo. La scena come un baratro, lo spazio vuoto ai lati dell’azione come un vento sinistro che pervade il tutto. Ma non siamo in un incubo, e non solo per il “controcanto” delle testimonianze sonore: La classe è uno spettacolo che mescola, anche con molta libertà formale, registri e tinte diversi, dal perturbante al comico, dalla delicatezza tragica con cui mette in scena l’infanzia alla strafottenza corrosiva con cui a volte tratteggia la condizione adulta. Da questo punto di vista, essenziale è la scelta del linguaggio del teatro di figura: le marionette bene esprimono l’inadeguatezza dei bambini di fronte alla costrizione e ai codici della violenza – che appunto li riduce, almeno parzialmente, a oggetti. Allo stesso tempo, però, il loro appartenere implicitamente a un immaginario infantile assegna alle vicende anche un tocco giocoso e una leggerezza cartoonistica che orienta in modo diverso la riflessione. C’è infatti un filo sottile e ambiguo che chiama in causa il tema della complicità: ora più o meno visibili, ma sempre presenti, a muovere le marionette ci sono dei performer vestiti di nero che non hanno una funzione esclusivamente strumentale. A volte sembrano dialogare con gli alunni-oggetti, aiutandoli a compiere determinate azioni, condividendo con loro sguardi e sentimenti. D’altro canto, si tratta di una relazione costitutivamente impossibile, spezzata – che non può cioè abolire la differenza ontologica fra attore e marionetta, fra persona in carne e ossa e manufatto artigianale. È dentro a quest’asse che, forse, anche il nostro sguardo si infrange e viene interrogato: con chi parteggiamo fra i protagonisti dello spettacolo, con chi o con cosa possiamo realmente immedesimarci? Ci sentiamo gli alunni presi di mira da suor Lidia, nonostante il loro essere doppiamente oggetti e dunque doppiamente distanti da noi? Ci ritroviamo nei ricordi dell’autrice, che sono però espressi nella forma privata e intima della prima persona singolare? Oppure infine siamo proprio quei performer – che muovono le figure e al tempo stesso sono mossi ed etero-diretti in quanto attori – nella loro complicità ambivalente, nel nostro essere spettatori sì partecipi ma impossibilitati a partecipare…

«La scuola del resto non è precisamente un luogo per studiare, o certo non solo quello: è un’epoca della vita durante la quale si esplorano i confini del noto e del lecito, e ci si ronza intorno. E le amicizie che vi si coltivano non sono altro che una zona franca dove sperimentare comportamenti altrimenti vietati, ricevendo supporto invece che rimproveri. Per svilupparci non ci restava che oltrepassare i confini. I grandi progressi avvenivano sempre infrangendo delle regole, dopodiché o si subivano crudeli ma giuste punizioni o si scopriva che non vi era alcuna punizione. Oppure che non vi era nessuna regola, la regola era stata messa lì come spaventapasseri in un campo, oppure la regola era un’altra e noi non l’avevamo capito. Tanto si sapeva che le regole avrebbero continuato a cambiare, o a essere interpretate in modo sempre diverso. Si cresce a strappi, per errori e colpi di testa, e chi alla fine non soccombe, voilà, è cresciuto, ma sarà cresciuto anche quello che era rimasto per strada, a modo suo, cioè storto, poi si continua però al contrario, si decresce, si invecchia, mentre si capiscono sempre più cose, sempre un maggior numero di cose, le si capisce sempre di meno, e alla fine per niente»

(Edoardo Albinati, “La scuola cattolica”)
(foto di Valeria Tomasulo)

Maggiormente lineare, meno scenograficamente articolato ma per certi versi più straziante dal punto di vista emotivo è invece Una cosa enorme – anche questo spettacolo una sorta di allegoria amara, estroversione autobiografica e sentimentale in cui la scarnificazione drammaturgica sembra accerchiare ulteriormente la coscienza dell’autrice. Ora la protagonista è una persona (Marta Meneghetti), una donna in procinto di diventare madre. Indossa una vestaglia sgualcita, ha gambe e braccia esili, muscoli guizzanti ma, soprattutto, ha “una cosa enorme” a occuparle il basso ventre, una gravidanza spropositata e colossale – un pezzo di sé che non le appartiene del tutto e anzi pare soverchiarla in termini di forze e volontà.

Sul lato sinistro della scena, una poltrona malridotta e piena di strappi. Sullo sfondo, un frigorifero e un piano cottura tempestati da ruggine e sporcizia – oggetti di scena ridotti a puri segni, generici simboli di generico degrado, domestico e metafisico. L’attrice porta con sé un fucile, fuma diverse sigarette. L’illuminazione è calda e diffusa, ma ha anche qualcosa di inquietante. Potremmo essere in uno scenario post-apocalittico à la Sulla strada di McCarthy o in un lembo sospeso di provincia americana come in True Detective. Siamo appunto dentro un’allegoria acida e corrosiva di una gravidanza traumatica da cui la protagonista sembra non volersi distaccare per nessuno motivo (la narrazione prende spunto da testimonianze audio raccolte dall’autrice, che raccontano di sogni e paure legati alla maternità, tra cui quella di essere sopraffatte dalla rottura del legame simbiotico al momento della nascita). Così cerca, in maniera chiaramente esagerata e grottesca, di stringersi l’utero con una corda e col suo fucile va strenuamente a caccia di cicogne che col loro gracchiare sorvolano la scena, per impedire che il parto avvenga. Ne abbatte anche una, ma non è sufficiente: le acque si rompono, la luce si spegne. Da qui è come se iniziasse un secondo capitolo, o magari, si sviluppasse solo l’immagine speculare di ciò che avevamo visto sino a questo momento. Un uomo, ora, è solo sul palco: è una persona anziana ma in fasce, che si muove come fosse un cucciolo di volatile appena uscito da un uovo che si è schiuso. La protagonista se ne prende cura: imbandisce la tavola per lui, lo nutre, lo aiuta a vestirsi e a salire e scendere da un gigantesco seggiolone che intanto ha fatto capolino in scena, se ne lamenta perché la fatica è troppa, ha crisi di pianto e infine qualche accesso d’affetto. Siamo di fronte alla rappresentazione surreale del rapporto problematico di una madre con il proprio figlio appena nato, che sembra un cucciolo di cicogna? Sembrerebbe così, ma a un certo punto la donna chiama l’uomo che ha accanto “papà” e, con una sorta di colpo di scena (che ha però a che fare solo con la nostra percezione), capiamo che più semplicemente e linearmente si tratta di una figlia che accudisce il padre anziano e non più autosufficiente.

(foto di Emanuela Giusto)

Anche qui, la scelta dei linguaggi è importante: il pancione della protagonista – la “cosa enorme” richiamata dal titolo dello spettacolo – è appunto un appendice al corpo dell’attrice, una forma evidentemente esagerata e visibilmente artefatta. Come già in parte avveniva con La classe, gli oggetti in scena, siano essi dei veri e propri personaggi come gli alunni del primo capitolo della trilogia o dei quasi-personaggi come il ventre materno di Una cosa enorme, segnalano la presenza di una qualche entità perturbante e irrisolta, forse infine non del tutto comprensibile: segnalano, più precisamente, la volontà di indagare attraverso i codici del teatro di figura il rapporto che l’umano intrattiene con quella parte di sé che viene percepita come qualcosa di non-umano (l’infanzia-adolescenza da un lato e la maternità dall’altro). Similmente, anche la mescolanza di registri si rivela fondamentale per l’impianto drammaturgico: se in prima battuta non ci accorgiamo del fatto che la persona che nella seconda parte dello spettacolo viene assistita dall’attrice è semplicemente il padre di quest’ultima, ma siamo piuttosto portati a pensarlo come un bambino-volatile, è perché non siamo disposti ad accettare il realismo che pervade la scena, dal momento che la prima parte ci aveva invece abituato a un tono surreal-grottesco. Ed è forse in questo incrocio di registri, in questo slittamento dei codici, che si annida anche il messaggio più amaro e ambiguo di Una cosa enorme: come se l’inizio della performance ci avesse mostrato una donna in lotta metafisica con la propria femminilità (con l’aspetto sociale della propria femminilità), che rifiutando il parto e sparando alla cicogna cercasse con tali gesti di abbattere l’ordine simbolico della madre in cui si sentiva attrappata, e che poi nel ciclo della vita si è ritrovata comunque inchiodata a un difficile ed estenuante lavoro di cura, insieme sofferenza e affetto, “cosa enorme” con cui in un modo o nell’altro è necessario fare i conti…

«Forse, come insegna Luce Irigaray, all’origine della nostra cultura c’è non il parricidio di cui parla Freud seguendo l’Edipo di Sofocle, ma un matricidio, come suggerisce l’Orestea di Eschilo. Il popolo degli uomini, ha scritto Irigaray, ha fatto del suo stesso sesso uno strumento per dominare la potenza materna. Il linguaggio della filosofia conferma questa veduta. Fra il patriarcato e lo sviluppo della filosofia c’è una complicità di cui non ho tenuto conto quando mi rivolsi a questa per trovare l’indipendenza simbolica. Il regno della generazione e il mondo naturale di cui parlano i filosofi, io adesso vedo che non è la natura, buona o cattiva, ordinata o caotica, poco importa, ma la possibilità di un altro ordine simbolico che non spoglia la madre delle sue qualità».

(Luisa Muraro, “L’ordine simbolico della madre”)

La messa in scena di Il grande vuoto è quasi la paradossale negazione del titolo dello spettacolo: siamo infatti di fronte a una sorta di tutto-pieno, a uno sviluppo narrativo fitto di rimandi metaforici, a una parola non più rada ma insistita e frequente. Anche l’immagine, che a tratti assume una forza di natura iconica e simbolica, nello sviluppo delle vicende si stempera come supporto dei dialoghi, espressione e coronamento del disegno drammaturgico. C’è un prologo: un’automobile al centro del palco e una coppia anziana che si scambia battute, gesti d’affetto ma anche frecciate rancorose e si produce in litigi. Sono appena usciti dalla farmacia e sono in procinto di tornare a casa, ma per un motivo o per l’altro non riescono a partire: hanno dimenticato qualcosa, all’uomo scappa improvvisamente di andare in bagno, la donna sente un gattino sotto la ruota, la messa in moto alla fine non funziona ecc. Sembra quasi una riedizione in piccolo de Il fascino discreto della borghesia, in cui i protagonisti non riuscivano mai a sedersi a tavola e mangiare. Analogamente, con questa prima scena in cui la coppia continua a entrare e uscire dall’automobile, Iacozzilli condensa tanti dei meccanismi che sorreggono l’intera performance: la ripetizione di certi gesti e dialoghi come “punto di inceppamento” dei rapporti interpersonali, le parole come un mero rituale in cui non c’è vero scambio di informazioni, l’intreccio di registri comunicativi che non permette più di inquadrare il senso generale e di “agire insieme”… Scopriamo in poco tempo che l’uomo, sparito definitivamente dal palco, è morto: è la sua assenza a costituire il “grande vuoto” evocato nel titolo. La donna (un’attrice in pensione interpretata da Giusi Merli), ormai vedova, sembra vivere interamente proiettata nel ricordo di lui (o meglio, come vedremo, dentro il “calco” di questo ricordo). La scenografia è cambiata: ora siamo nel soggiorno della casa della protagonista, un interno fatto di una lunga tavolata e di un grosso mobile a scomparti che troneggia sullo sfondo. Qui, col tempo dell’azione drammaturgica che diventa piano piano un lunghissimo time lapse, nell’atmosfera di un “eterno e smisurato pranzo domenicale”, assistiamo prima alla negazione della morte del compagno da parte di lei e poi allo sprofondare dentro alla più completa perdita di memoria e di capacità di discernimento, al progredire dell’Alzheimer che tutto risucchia come in un vortice lattiginoso di fronte allo scoramento disperato dei due figli (fratello e sorella), che hanno fatto capolino in scena e che non riescono ad abituarsi all’invecchiamento cerebrale della loro madre.

(foto da “L’altro quotidiano”)

Ancora, è un oggetto ad agglutinare su di sé il peso dello sviluppo narrativo: una matrioska che la protagonista chiede in continuazione di visionare e che le fa rammentare un aneddoto di gioventù, quando con la compagnia per cui lavorava come attrice venne invitata a San Pietroburgo, in Russia, per mettere in scena il Re Lear nel teatro cittadino. Il racconto ossessivamente ripetuto di questo aneddoto diventa il segno tangibile della perdita di memoria e di coscienza della protagonista, con un meccanismo teatrale appunto “a matrioska”: la ripetizione del medesimo discorso così come degli stessi gesti, elementi che stanno alla base del lavoro d’attore e della pratica scenica (la repetition francese) sia in generale che nello specifico del personaggio dell’ex-attrice in Il grande vuoto, diventano, mutando di significato, il perno del dramma familiare e umano dello spettacolo, in una sorta di raddoppio dell’elemento diegetico con quello extra-diegetico, o viceversa. Coerentemente, il finale dello spettacolo – ovvero lo scioglimento del dramma – non potrà che essere il collasso di questi due poli: in una scenografia ormai spolpata e caotica, cosparsa di costumi, giocattoli e cianfrusaglie domestiche, la protagonista finalmente reciterà (ripeterà) il famoso monologo del Re Lear in preda alla forma ultima del suo delirio, mentre i figli la assisteranno, anche loro recitando ma al tempo stesso recuperando un (im)possibile rapporto umano con la propria madre, che ormai più non li vede se non come attori, non li riconosce, non se li ricorda. Il vento allora, sia quello che idealmente attraversa l’intera trilogia che quello scespiriano, non ha più spazio per correre sulla scena se non lo spazio della coscienza e dei corpi attoriali, di una parola che – dimentica della sua memoria – prova a unire in un sol colpo, e come sempre, realtà e finzione, teatro e vita.

«Soffiate, venti, e rompetevi le guance! infuriate! soffiate!
Voi cateratte e uragani, eruttate
Finché non avrete sommerso i nostri campanili, annegato i galli sui tetti!
Voi fuochi sulfurei e veloci più del pensiero,
Avanguardie di fulmini che fendono le querce,
Bruciate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti,
Spiana la spessa rotondità del mondo!
Infrangi gli stampi della Natura, distruggi tutti i semi
Che fanno l’uomo ingrato!»

(“Re Lear”, Atto III scena II)

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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