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Il monaco laico e la sorella musulmana. ”Leila della tempesta”, storia di una passione civile

di Gianluca Poggi

Nella babele planetaria del nostro tempo non tutto è caotico, frenetico e assordante. Babele è anche la stanza spoglia del parlatorio delle carceri. Al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia va in scena Leila della tempesta, nome di finzione per una storia vera quanto rara: l’incontro inatteso tra una giovane detenuta musulmana, Leila, e Padre Ignazio, monaco cristiano dedito all’ascolto e alla cura dei carcerati di fede islamica. Nella sua esperienza pluriennale di servizio volontario accanto a questi dimenticati, Padre Ignazio si confronta con le vicende umane più diverse, raccogliendole progressivamente in quaderni di memorie. Dedizione profonda e cura sincera trasfigurano il gesto quotidiano in racconto, dapprima racchiuso nel libro omonimo (Leila della Tempesta, di Ignazio De Francesco, edizioni Zikkaron, 2016), ma ormai destinato – nel migliore spirito missionario – a rimettersi subito in cammino, senza più arrestarsi. I dialoghi raccolti infatti rivendicano presto qualcosa di più della pagina scritta. Vogliono essere agiti, chiedono di ritornare alla parola viva, rinnovando il confronto con l’altro. Nasce così lo spettacolo, affidato alla drammaturgia e alla regia di Alessandro Berti, che interpreta il monaco accompagnando sul palco Leila, Sara Cianfriglia.

La scena scarna – un tavolo semplice e un paio di sedie – concentra tutta la portata del messaggio sul testo e sull’interpretazione naturalistica e convincente dei due attori. Nulla traspare all’esterno in questo microcosmo spoglio e senza nome ai margini del mondo, non a caso così lontano dall’abbondanza ridondante di oggetti, estraneo al luccichio caotico delle strade e delle piazze. Eppure, sulle pareti scure, una luce calda illumina volti tutt’altro che anonimi, definisce lo spazio e i corpi senza artifici, nella loro semplicità, nella loro autenticità, scandendo le varie sequenze con l’alternanza elementare di luce e oscurità. Per parte sua, anche la recitazione adotta uno stile estremamente verosimile, l’espressività rimane sempre genuina, aderente alla fibra della realtà, sempre addomesticando la finzione alla verità. La gestualità, come la parola, comunica la spontaneità e la semplicità della situazione rappresentata, difficilmente trascende la sua immediatezza di senso, disegnando soltanto una danza di lenti volteggi di sedie attorno al tavolo del dialogo. Grazie a questa ricerca fedele, sul palcoscenico si dispiega ogni volta di nuovo il complesso legame di fiducia, condivisione, talvolta di diffidenza, di scontro e d’incomprensione che matura tra i due personaggi durante le visite.

La protagonista è Leila, una giovane donna tunisina, orgogliosa e inflessibile nella fede, eroina dei nostri tempi perché superstite del viaggio della speranza che la conduce in Italia, la terra in cui – crede – potrà finalmente sedere compiaciuta in un giardino, principessa nel suo piccolo eden. Eppure, autentica come la Leila adamantina, in carcere sconta la sua pena un’altra Leila inscindibile dalla prima, che rifiuta un matrimonio italiano perché contrario alla parola del Profeta solo per sprofondare nel chiaroscuro dell’emarginazione, avverando con la sua parabola personale, ancora una volta, il nesso tra mancata integrazione e illegalità. Nel profondo del suo animo, infine, il marchio del destino, nero come la notte – e notte è il suo nome, in arabo: essere figlia della tempesta. Quella del cuore di sua madre, che la mette al mondo la notte in cui uccidono suo padre, quella ben più che simbolica dell’attraversamento del Mediterraneo e quella, infine, a cui sente di non poter resistere nella disperazione della sua caduta, fuori dalla legge di Dio e degli uomini.

«I poveri non sono dei poveretti» riassume alla fine, terminato lo spettacolo, Padre Ignazio presente per un dibattito conclusivo: dietro le sbarre non sono ombre di uomini senza storie, figure opache da biasimare e compiangere perché vittime di se stessi e della loro miseria, tutt’uno con il crimine subito e senza speranze – se non quella, modesta e concessa a denti stretti, di poter tornare in libertà senza delinquere di nuovo. Tutt’altro. Ogni ospite del carcere è un fratello, una sorella, da rispettare, onorare e di cui prendersi cura, riabilitando la dignità offesa dal crimine compiuto innanzitutto dedicando tempo. Solo prestando ascolto si spalanca la terribile bellezza dell’umanità altrui, specie quando offesa. Sullo sfondo sempre Babele: la lingua si fa insieme veicolo e ostacolo all’incontro. Il monaco dialoga con Leila offrendole una fraternità sincera, frutto di una profonda passione per la cultura araba e di un lungo studio dell’Islam. Lo fa in arabo, producendo una sensazione di estraneità capovolta: siamo noi spettatori adesso ad avvertire una distanza, l’affacciarsi di un universo culturale altro, per quanto affine – e in fin dei conti inaccessibile senza la mediazione di Padre Ignazio.

La lingua veicola un patrimonio identitario che porta all’incontro se vissuto attraverso la logica della fratellanza. Proprio qui tuttavia qualcosa si inceppa e ciò che il monaco vede come un nome che abbraccia tutti, indiscriminatamente, per Leila può avere un valore solo: fratelli nella fede. Il rapporto si incrina davanti a un rifiuto che non coinvolge solamente i due protagonisti, bensì affonda le proprie radici nella parola del Profeta. Accomunati dal Libro, cristiani e musulmani restano due famiglie separate. Padre Ignazio non si rassegna, non è animato soltanto dalla carità cristiana, né solo da un amore profondo per la cultura islamica, ma anche da una incrollabile passione civile. La Bibbia, il Corano, la Costituzione della Repubblica Italiana. Alla ricerca di un testo che ricomponga lo strappo, che includa più della legge di Dio, il monaco, fedele al suo maestro Giuseppe Dossetti, si appella alla carta costituzionale, «ombrello più largo», più inclusivo e che rinnova una comunanza e insiste su una solidarietà che, per quanto possa essere appannaggio del diritto moderno, altro non è che una traduzione dell’amore cristiano e – Padre Ignazio ne è convinto – della tadamun(solidarietà) delle sure coraniche.

Servo di Dio quanto servo dello Stato, la sua vicinanza ai poveri lo impegna anche nel delicato processo di rieducazione di Leila, passando proprio attraverso la laicità di una carta dei diritti fondamentali, lontano da rivendicazioni religiose. Se tra le macerie di Babele ogni uomo è straniero all’altro uomo, Padre Ignazio si fa testimone di pratiche di buona cittadinanza, prima ancora che della sua fede, cosicché, dove Corano e Vangelo non sembrano incontrarsi, uno stralcio della nuova Costituzione tunisina – frutto dell’unica Primavera Araba a lieto fine – si rivela consonante con quella italiana e apre di nuovo a un’appartenenza comune.

Leila esce di prigione, è il momento dei saluti. Rifiutando la sistemazione per cui Padre Ignazio si era prodigato tanto, la giovane donna muove passi incerti e pericolosamente esposti alla facile attrazione di un ritorno al sommerso dell’illegalità. Ma è una libera cittadina ora, nemmeno il premuroso monaco deve dimenticarsene. A lui resta la sua missione: testimoniare un’idea generosa e coraggiosa di Occidente, che abbracci la tradizione ebraico-cristiana, il pensiero moderno, ma anche i fratelli dell’Islam.

foto di Daniela Neri

L'autore

  • Gianluca Poggi

    Studente di filosofia all’Università di Torino, ottiene asilo in Altre Velocità in fuga dall’horror vacui post-Erasmus. Attanagliato dal blocco dello scrittore, si prende le sue piccole rivincite scrivendo di teatro e ascoltando musica, da Mahler ai Moderat.

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