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Il mestiere del critico teatrale oggi: un incontro con Graziano Graziani

di Altre Velocità

È una vita difficile, la vita del critico. In un’epoca in cui la precarietà è parte integrante del mondo del teatro in tutte le sue sfaccettature – artisti, operatori, critici, accademici – la passione e la volontà di parlare di teatro, oggi, si confrontano con la necessità di sbarcare il lunario, di sapersi orientare in un orizzonte multiplo di ricerca di committenze e di occasioni diverse. Il mestiere del critico si costruisce strada facendo, in un percorso professionale e di vita che non segue regole precise e universali ma insegue un bisogno: essere testimoni, raccontare, superare barriere linguistiche e metodologiche per portare il fatto teatrale all’attenzione di un ambiente culturale che talvolta tende a escluderlo, etichettandolo come nicchia minoritaria.
Ne abbiamo parlato con Graziano Graziani (Fahrenheit-Radio Tre, Minima&moralia, Stati d’Eccezione, autore Quodlibet) in un incontro su comunicazione, giornalismo, società connesse e spirito critico. Ai ragazzi della redazione di Bologna Teatri, Graziani ha raccontato la propria esperienza di critico teatrale, dando preziosi consigli e suggerimenti: riportiamo di seguito un estratto dall’incontro:

«Con le dovute eccezioni, il mestiere del critico non ha in sé una dimensione remunerativa: per esercitare la critica oggi bisogna trovare canali dove è possibile farlo professionalmente, costruendosi un proprio percorso. Parafrasando le parole di Andrea Cosentino, che intervistai per Hic Sunt Leones (primo libro che ho curato sul teatro): essere un artista indipendente significa essere dipendente da tante persone, ma solo frazionando la dipendenza è possibile mantenere un po’ di indipendenza.
Frazionare e diversificare, quindi, non solo per mantenere la propria indipendenza ma anche perché la diversificazione aggiunge sguardo. Ho iniziato a fare questo mestiere sulle pagine di “Carta”, settimanale che usciva in allegato a “Il Manifesto”, nel quale avevo molta libertà dal punto di vista del linguaggio e ho potuto portare avanti una ricerca indipendente, sebbene sempre legata a temi sociali. Dopo quell’esperienza di una scrittura generalista ma schierata politicamente ho cominciato a lavorare a Radio Tre, tutt’ora una delle mie principali attività, dove la linee della “a-specificità” del direttore Marino Sinibaldi mi ha portato a parlare non tanto di teatro quanto di letteratura. Essere alla guida di un programma di successo come “Fahrenheit” (condotto con Loredana Lipperini, ndr) rappresenta per me un’occasione per confrontarmi con temi che escono dalla specificità del mio settore, per traghettare alcuni contenuti teatrali nel mondo letterario e, viceversa, portare nel mondo del teatro alcuni interrogativi letterari. Un esercizio di diversificazione dello sguardo che mi ha successivamente condotto a scrivere recensioni sul blog letterario “minima&moralia”, volendo continuare a mantenere aperto il ponte tra teatro e letteratura. Un ponte necessario oggi più che mai, perché il “divorzio” tra teatro e letteratura si è spesso tradotto in una brutale separazione di due nicchie, due minorità che stanno ricominciando a dialogare proprio grazie al lavoro di chi esercita il mestiere della critica. Due minorità preziose in quanto tali, perché spesso l’essere maggioritari significa dover abdicare al senso critico. Il teatro è una comunità che va raccontata, pezzo dopo pezzo.
A queste si aggiungono altre collaborazioni in ambito più o meno letterario, come “Il Tascabile”, rivista che nasce in seno a Treccani e primo periodico online. “Il Tascabile” non si inserisce in uno specifico contesto tematico e ai redattori viene richiesto di abbandonare la specificità del proprio linguaggio per approcciarsi a interrogativi universali: il racconto di un artista o di uno spettacolo, in questo modo, sarà inserito all’interno di una riflessione più ampia che abbatte i muri tra i diversi settori. Occorre dunque mettere in discussione le proprie sicurezze e le proprie formule per dialogare con una testata che ti porta verso un’altra direzione, ma senza dimenticare le domande urgenti che si vogliono portare all’attenzione dei lettori.
Questa è la vera sfida: portare i propri contenuti dentro le testate. Quello che io provo a fare è riportare la mia testimonianza di un mondo tanto comunicato ma poco raccontato che è quello del teatro. Tanto comunicato, perché oggi le compagnie e gli artisti si auto-comunicano e producono molti contenuti tramite i social; poco raccontato, però, perché il racconto prevede uno sguardo terzo, un’idea di pubblico e di narrazione. Bisogna forzare un po’ i margini per recuperare l’idea di un teatro come fatto, come parte indelebile della nostra cultura: il grande divorzio dalla cultura di massa è stato importante per sviluppare la ricerca teatrale ma oggi lo paghiamo rispetto al posizionamento gerarchico del mondo teatrale che viene sempre ricordato per ultimo, anche quando si tratta di sovvenzioni.
Affianco a queste esperienze, ci sono progetti più specifici nell’ambito teatrale, come i “Quaderni dei Teatri di Roma” curati con Attilio Scarpellini, una rivista cartacea sostenuta dal Teatro di Roma ma caratterizzata da una libertà rara di questi tempi, in quanto solitamente le grandi istituzioni preferiscono lavorare sugli house organ. O ancora, i talk che sto curando in collaborazione con il Teatro di Roma, studiati con una forma di autorialità come se fosse una rivista: anche in questo caso, la volontà di parlare di teatro si concilia con il superamento della specificità del linguaggio della critica teatrale per andare incontro a una commistione di temi, discipline e linguaggi. Ad esempio, per trattare dell’Arlecchino di Valerio Binasco ci siamo chiesti: come facciamo a parlare di un testo e un attore così noti senza scadere nell’ovvio? Abbiamo quindi organizzato un incontro sulla fame, perché Arlecchino è una maschera mossa da una fame atavica. Alberto Crespi, conduttore di “Hollywood Party” su Radio Tre, ha quindi parlato delle maschere della fame nel cinema, e Marta Fana, economista che si occupa del precariato, degli ambiti nei quali oggi domina la fame: i contatti precari, i runner, gli spedizionieri. Abbiamo così inventato una modalità di incontro e dialogo che potesse tradurre Arlecchino nel nostro presente, in altri linguaggi. Una formula che permette di abitare i formati con i propri temi, senza aver paura di farsi contaminare.
In conclusione, questa è la formula che, attraversando ambiti culturali diversi, ho imparato a utilizzare e che mi sembra funzioni perché abbraccia temi e linguaggi diversi, non teme la contaminazione ed è diventata a suo modo una forma autoriale. Mi sento che sia questo il consiglio da dare a chi vuole intraprendere il mestiere del critico teatrale: trovare una chiave di lettura originale che permetta di “firmare” il proprio pensiero, per animare in modo riconoscibile un format già esistente».

a cura di Valeria Venturelli

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