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Il magazzino della ricerca. Conversazione con Danio Manfredini

di Lorenzo Donati

Il suo percorso ha incrociato pratiche ed esperienze oggi ormai diventate “mitiche”, dai centri sociali milanesi alla vicinanza con César Brie e Iben Nagel Rasmussen. Cosa rimane di quegli anni?
Quando ho incontrato César Brie avevo diciotto anni, l’ho conosciuto per caso, ho iniziato a lavorare con lui in un laboratorio. Avevamo uno spazio nel centro sociale Isola. Ci occupavamo del teatro, ma nel centro c’erano attività politiche, sostenute soprattutto dalle femministe. C’erano delle feste per il quartiere, eventi di strada. Quello è stato il mio primo imprinting.
Quando il centro fu sgomberato ognuno prese la sua strada, e io andai a lavorare al Leoncavallo, dove sono rimasto fino all’89. Mi veniva spesso chiesto di intervenire, di schierarmi, di fare dei lavori che rispondessero alla linea politica. Ma io mi sono sempre rifiutato. Non ho mai accettato di sottomettere l’arte a un’idea politica. L’importante di quegli anni è stato guardare a quello che si era appreso, vedere che cosa era cambiato, c’erano delle domande pressanti che continuavamo a porci: «Sono cambiato?», «Qual è il mio modo di concepire il lavoro teatrale?», «Ho incontrato dei maestri?». Ho riflettuto molto su queste figure: il maestro è solamente una persona che ti apre delle porte. Nessuno può insegnarti la tua arte, eppure i binari sui quali un altro si muove possono aprire  delle riflessioni. Dopo il Leoncavallo mi spostai in una sala in un sindacato anarchico, luogo senza il quale Cinema cielo Tre studi per una crocifissone non ci sarebbero stati. In quegli anni c’erano forse molti spazi nascosti, dimenticati, non controllati, e per questo molto liberi. 

Cosa che non avviene oggi…
Per me è difficile sottomettere il lavoro artistico alle leggi del mercato produttivo. La creazione ti porta sempre di fronte a qualcosa di sconosciuto. Quando fai uno spettacolo da solo ti puoi permettere di creare qualcosa in libertà. Quando sei con altri attori, poiché la vita economica è dura per tutti, lavori pensando che loro debbano portarsi a casa qualcosa per mangiare. E poi devi rientrare nella categoria “spettacolo”, troppo generalista e scollegata dalla realtà. Bisognerebbe che gli stabili, anche quelli più attivi, non si impuntassero sulla forma spettacolo come unico momento per entrare in comunicazione col pubblico, ma che valorizzassero il percorso a tappe della ricerca. Da un lato recepisco che c’è qualcosa che pulsa, un’attenzione di certi enti di produzione, come l’Ert che ci sostiene, ma dall’altro continua l’egemonia del teatro classico.

Forse potremmo dire che l’idea ancora dominante è quella di un teatro funzionale, con le sue regolette produttive. Volendo scardinare questa logica si trova il deserto.
Forse c’è anche una paura di osare nel campo del teatro, e dell’arte. Ho l’impressione che si facciano troppi bei pensieri sul teatro, ma del teatro non si dovrebbe parlare. Il concetto del lavoro è una cosa che l’artista ha dentro di sé, ma quello che poi importa non è tanto il pensiero che ci sta dietro, ma la risultante scenica. Io vi sto dando delle informazioni, ma non posso parlare di quello che va in scena. L’artista è colui che sta in ascolto e il teatro è una delle arti più relative, che impone le sue regole e i suoi linguaggi, ai quali siamo noi a essere sottomessi e non viceversa. È difficile formulare le giuste domande al teatro, e di risposte non ce ne sono.

Dopo molti soli, è al secondo spettacolo con più attori. Sembra quasi una sfida ai paletti di un mercato asfittico…
È vero: all’inizio del mio percorso artistico provavo da solo, in sala, e se il lavoro funzionava riusciva a entrare in una distribuzione, ma senza essere un prodotto determinato. Quando ho cominciato a lavorare su progetti che coinvolgevano più persone, come è stato per Cinema Cielo, sono dovuto entrare in un contesto produttivo, di mercato. Ciò significa entrare all’interno di obblighi specifici, che però ho tentato di piegare alle mie richieste di tempi di lavoro lunghi, per esempio. Per Il sacro segno dei mostri abbiamo lavorato dieci giorni al mese per dieci mesi, con una tranche di venti giorni per l’allestimento: sono tempi molto lunghi rispetto a una normale produzione, anche se in realtà è un periodo ancora breve quando si tratta di scrivere un’opera da zero. Non c’è niente, piano piano s’inizia a creare con gli attori i personaggi, i movimenti, il testo, la materia scenica… forse qui sta un senso di quello che si chiama “teatro di ricerca”, costruire tutto dal nulla.

In questo lavoro ha prelevato da una sua esperienza professionale, laboratori di pittura da lei tenuti in una struttura psichiatrica, alcuni materiali che sono divenuti scrittura di scena. Come avviene questo passaggio?
Non ho mai avuto un’idea preconcetta di come procedere registicamente, e in quest’occasione abbiamo lavorato a partire dalle parole, quelle appartenenti ai pazienti incontrati. Lentamente hanno preso forma i personaggi, poi questi hanno cominciato a masticare le parole che avevo raccolto, e con la stessa lentezza si sono create delle scene vere e proprie. Mantenevo un’unica direzione: capire se nel quadro riconoscevo la realtà che avevo vissuto, pur nella naturale autonomia della scena.

Potremmo concludere parlando del sacro, quello dei mostri dello spettacolo, ma anche quello ormai scomparso dalla realtà quotidiana.
Io credo che la sacralità sia un po’ ovunque. Anche la cosa più becera ha del sacro. Tendiamo molto a dividere il bene dal male, facciamo appello ai valori … quello che ci sfugge è che anche nelle azioni all’apparenza più violente esiste un’energia “sacra”, che però non riusciamo a inquadrare. Un confronto immediato possiamo farlo con la morte, del tutto rimossa dalla società attuale. Anche il concetto di follia è al di fuori, non rientra nella vita “normale”. Educazione, religione, morale condizionano le nostre percezioni, definiscono i limiti della normalità. Nei pazienti che ho incontrato, questi confini si sfaldano tranquillamente: realtà, sogno e allucinazione sono sullo stesso piano. Un significato della parola mostro è “segno divino”, la manifestazione diretta di qualcosa che non riusciamo a concepire come umano. Il malato psichiatrico e l’artista sono accomunati da una condizione di caos… quando creo sento la pena, l’angoscia di muovermi nel caos. La differenza è che l’artista prima o poi riesce a organizzarlo, questo caos, il paziente quasi mai.

di Lorenzo Donati, Serena Terranova

foto di Le Pera

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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