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Il Flauto Magico di Fanny & Alexander. Intervista a Chiara Lagani, Luigi De Angelis, Elena Di Gioia

di Lorenzo Donati

Due bambini ci guardano, proiettati in un grande schermo al centro del palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna. Per vederli siamo invitati a indossare occhialini per la visione 3d. Sono nel mezzo di una foresta di piante verdi, vestono alla marinara, sembrano indecisi, forse si stanno chiedendo cosa devono fare con noi, con le nostre aspettative, con la nostra pretesa di illusione e finzione. Così inizia Il Flauto Magico di Fanny & Alexander, per la regia di Luigi De Angelis, la drammaturgia e i costumi di Chiara Lagani e con la direzione musicale di Michele Mariotti, orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Dopo questo inizio “ribaltato” prendono forma le fantasmagorie di Mozart, come se ciò che vediamo fosse architettato per noi dai due bambini, che in video iniziano a manovrare i meccanismi visionari di un teatrino barocco esattamente come accade a Fanny e Alexander dell’omonimo film di Ingmar Bergman. I bambini ci guardano e ordiscono tutto quello che seguirà per noi, dal momento che le scene del Comunale sono l’esatta riproduzione in scala del teatrino dei bambini? Oppure siamo noi che, gradualmente, entriamo “dentro” alle loro macchinazioni rappresentate, diventando anche noi personaggi? Di certo prendiamo le parti di Tamino e Pamina e del loro travaglio amoroso (Paolo Fanale e Maria Grazia Schiavo), restiamo intimoriti dai fendenti vocali della Regina della Notte (Christina Poulitsi), veniamo apparentemente rassicurati dall’aura di Sarastro, colui che costudisce il tempio e protegge i suoi affiliati (Mika Kares), facciamo il tifo per Papageno e per il suo giocoso portamento, che ci pare insofferente a imposizioni e regole (Nicola Ulivieri). Un cast eccezionale per profondità della ricerca sui personaggi e complessità canora, così che la nostra domanda di partenza ci riporta all’incipit del Flauto Magico di Ingmar Bergman, dove la Sinfonia Mozartiana viene accompagnata con un montaggio di primi piani dei volti degli spettatori, dove fra primo e secondo atto un attore spia dal “buco nel sipario” per tentare forse ancora di tracciare un confine fra realtà e immaginazione.
Da qui siamo partiti, incontrando Chiara Lagani, Luigi De Angelis e Elena Di Gioia, curatrice di alcuni incontri preliminari e “tessitrice” di relazioni fra opera e città.

Pensando agli ultimi anni del vostro percorso, come siete arrivati al Flauto Magico?

Chiara Lagani: Credo che questo lavoro in qualche modo erediti tanti segni, emersi in maniera inconsapevole da tutto il nostro percorso. Non si è trattato di appoggiarsi a questioni formali già esplorate, è stato un passaggio non architettato, una messa al setaccio della nostra esperienza. In un confronto privato, una spettatrice che ci segue fin dalle origini mi ha raccontato come Il Flauto Magico sia secondo lei la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo, nel quale lei stessa ha ritrovato tracce del lavoro su Nabokov – gli occhi che spiano dalle pareti, il mondo dell’infanzia – e di Landolfi – il tema dell’amore e il lavoro sul rapporto materno.
Credo di poter anche dire che sono più di due anni che pensiamo al Flauto Magico, cioè dalla prima volta che ce ne ha parlato Nicola Sani. Da quella volta un piccolo tarlo ci ha lavorato dentro, più di quanto potessimo immaginare, ma il compito dell’artista è anche quello di accogliere delle cose inconsce, senza forzare. Così questi due anni sono stati la costruzione di una tessitura che si è manifestata piano piano: ci sono degli intrecci che non si possono governare, e questa è la magia più grande, assomiglia a quel fenomeno alchemico che ti porta a pensare che non è possibile farcela a due giorni dalle prove, invece si arriva sul palco e il teatro è più forte di te, gli elementi si annodano. Questa tessitura è un’insieme di «coincidenze premeditate», come le definirebbe Ada, un associarsi di punti d’incontro fra la storia di Fanny & Alexander e quella di Mozart e del suo Flauto Magico. Potevamo dirigere quella tessitura solo in parte, per il resto dovevamo farla lavorare da sola. Tante cose che erano lì, luminose, non potevamo ignorarle, era necessario utilizzarle per costruire una costellazione. Siamo stati in qualche modo “guidati” da un disegno che gradualmente è emerso.

Tra i punti di incontro c’è anche Ingmar Bergman, che diresse una versione filmica del Flauto Magico di Mozart nel 1974. Il riferimento alla sua opera è stato da subito così forte?

C.L.: Sì, decisamente. Era da tempo che ci dicevamo che se mai avessimo diretto un’opera avremmo voluto fare Il Flauto Magico, quindi la proposta di Sani è stata una coincidenza perfetta. La versione di Bergman è un film culto della nostra formazione e in questa messa in scena è stata la questione basica, lo spunto fondamentale che ha mosso tutto. Abbiamo fatto del mondo fantastico del Flauto di Bergman un punto di appoggio. Oltre a questo c’è la coincidenza della data di quest’opera, il 1974, l’anno di nascita mio e di Luigi, oltre ovviamente al nome del nostro gruppo che si riferisce a un suo film.
Fin dall’inizio abbiamo giocato con la questione dei bambini, suggerita anche dallo stesso Mozart a partire dal suo Mondo del Didietro. Nel Flauto siamo di fronte a un Mozart adulto che riesce a scandagliare tutte le parti più rovinose dell’animo umano ma rimane allo stesso tempo un fanciullo, e questa è forse la dannazione e la virtù di Mozart lungo tutta la sua vita. E quindi i due bambini che noi siamo, e che vogliamo continuare ad essere anche a quarant’anni, sono lì e guardano, e citano espressamente i fratelli Fanny e Alexander del film di Bergman interpretati qui da Alfonso Cafaro e Emma Minzi. In un primo momento pensavamo addirittura di invadere tutta la scena di bambini, di far ricoprire a loro tutti i ruoli, poi abbiamo capito che i bambini dovevano essere i “caronti” del processo: in scena sarebbero stati i sodali degli occhi dei due fratelli. Siamo noi quei bambini, e dunque i cantanti dovevano essere adulti: le passioni di questi personaggi sono scure, complesse, e sono contemplate da quest’infanzia quasi irraggiungibile eppure lì, vicinissima. E in tale relazione c’è una sproporzione di dimensione evidente: tutti noi adulti, cantanti e pubblico, siamo piccolissimi, a confronto dei due bambini del video che sono due giganti.

In uno degli incontri di presentazione dell’opera, vi abbiamo sentito sottolineare il fatto che Il Flauto Magico sia per voi, tra altre cose, un’opera dell’ambiguità. In effetti il suo gioco è farci pensare una cosa all’inizio per poi portarci a capirne un’altra, così come succede a Tamino. Allo stesso tempo, quanto abbiamo appreso dall’inizio resta: il flauto è stato comunque donato dalla Regina della notte, che solo in un secondo momento è qualificata come “cattiva”. Questo ci porta a pensare a un altro rimando ai vostri precedenti lavori, ovvero la questione dell’illusione, riferita ai due bambini che sono due grandi manipolatori come Oz (in tutti gli spettacoli nella sua funzione incarnata da Him); l’infanzia poi ha un’altra faccia, perché i bambini non sono solo quelli del video, ma sono anche i carcerieri di Pamina nel tempio di Sarastro; poi c’è l’anaglifo di Zapruder, che utilizzate da Nabokov in poi, uno strumento che “fa vedere” ma allo stesso tempo ci assorbe in un altrove finto; infine c’è la massoneria, che nell’immediato dà pensieri negativi ma in Mozart e nel vostro lavoro ha una valenza non del tutto mefitica.

C.L.: La Massoneria è un elemento volutamente indeterminato, nello spettacolo si scorge attraverso una simbologia tutto sommato leggera che emerge dalle scene. L’ambiguità è l’arma dell’enigma, il librettista Schikaneder inizialmente aveva immaginato la storia in modo diverso, separando nettamente la luce e le tenebre, il bene e il male, ma ha poi apprezzato il rimescolamento di Mozart, per il quale la radice del bene si confonde con quella del male.
Ci sarebbe molto da dire anche su ciascun personaggio, a partire dal “buon” Sarastro: lui è prima di tutto un potente, e come qualcuno degli spettatori ci ha detto il potere ha sempre una radice negativa, qualunque potere, anche quello democratico, illuminato e giusto. Sarastro stabilisce delle leggi, le impone ai suoi seguaci e per “salvare” Pamina la rapisce, la toglie dalle braccia della madre perché è “cattiva”. La Regina della notte, poi, è di per sé una donna bellissima, e i due bambini attori del video, Alfonso e Emma, mi chiedevano: come fa una donna così bella ad essere così cattiva? Allora la regina è forse una madre straziata, e questa vertigine vocale che esce dalla sua gola è certo furore di vendetta ma anche un urlo di dolore. Sono dei passaggi molto ambigui, ma sono intercapedini da custodire, anche laddove scatenano delle faglie drammaturgiche.
Però c’è la magia del flauto. È una chiave mozartiana meravigliosa a cui noi abbiamo aderito: è il flauto l’elemento che protegge, continuamente, i personaggi di questo viaggio. Quel flauto, intagliato da una radice antica dal padre di Pamina, è dono della Regina “cattiva”… ma rappresenta la musica, la potenza dell’arte. La forza dell’arte è legata a un’altra grande virtù, che è l’amore. Papageno, sul punto di togliersi la vita, è interrotto e salvato dai tre geni, bambini anch’essi, che rappresentano lo spirito guida, e sono portatori della purezza dell’arte e della musica. In questa scena, Papageno risponde al loro «Non ti devi uccidere» dicendo «Non fatemi la morale. Se l’amore incendiasse il vostro cuore – e si badi parla a dei bambini, col suo modo al solito iperbolico – anche voi arrivereste a questo». Quanto al moralismo, o piuttosto alla morale, sarebbe interessante approfondire di quale tipo sia in quest’opera, ma quel che ancora una volta è ribadito nella battuta è che è l’amore, come dice Bergman, il sentimento chiave, la via d’uscita e di entrata alle cose. È l’amore allora forse che ci permette di guardare al potere, al male, all’ambiguità, ai simboli, alla magia sottesa anche agli eventi negativi, all’incombere della notte sul regno del sole, al potere buono di Sarastro amico piú tutti gli altri dei bambini, è l’amore che permette a questi personaggi e a noi di guardare con occhi diversi i segni che incontriamo.

In qualche modo il nostro compito era far venire fuori le virtù de Il Flauto Magico, custodirne il fuoco come dice Luigi citando Mahler. Il fuoco è in quest’opera e noi ci siamo dati il compito di ravvivarlo. È una questione che ci poniamo sempre e che si affronta di fronte ad ogni classico, ma questa volta ne abbiamo percepito la qualità sensibile: dovevamo costruire dei mantici per far divampare questo fuoco.

La qualità di queste opere è quella lasciare delle aperture che danno adito a interpretazioni e letture possibili, e di epoca in epoca possiamo confrontare il modo in cui l’opera è stata vista. È interessane pensare a come queste aperture siano state colmate. Il Flauto di Fanny & Alexander evoca una delle vostre grandi questioni, ovvero il potere dell’illusione e l’eticità delle immagini. L’inizio ci mostra i due bambini intenti a creare illusioni e fantasmagorie, alla fine li vediamo trasformati, non c’è più bisogno del loro apporto, ce l’hanno fatta e l’illusione è compiuta.

C.L.: I bambini contemplano noi tutti, è questa la chiave del 3D. Credo che il momento più forte del video sia l’inizio del secondo atto, prima della Ouverture: l’occhio del bambino che spia il pubblico (vedi prima foto in questa pagina, ndr). Continuamente il 3D ci dice «Voi siete in gioco», e questa chiamata riguarda la nostra annosa questione sul pubblico-testimone. Loro, i bambini, chissà dove sono e chi sono e se esistono, ma guardano noi e ci rendono protagonisti: la comunità è protagonista del dramma. L’aggettare continuo del 3D segnala tale responsabilità, il flauto che ondeggia verso di noi, il dolce che ci viene offerto e altri segni.

L’importanza della comunità dovrebbe essere evidente sin da quando si entra, incontrando le maschere che ci strappano il biglietto: la targa sulla loro divisa ci dice che siamo nel regno di Sarastro, che è stato trasfigurato nel Teatro Comunale. C’è una comunità allargata, radunata attorno all’opera, che col suo sguardo rende possibile l’inclusione. Solamente il pubblico che viene e fa rumore intorno all’opera, che gioca con gli occhialini, che si accalca alle porte del Palazzo della Sapienza rende possibile il realizzarsi dell’idea di comunità. È come se il suono del flauto che fa accorrere anche gli animali selvaggi volesse richiamare a sé l’intera città. Abbiamo deciso di portare il progetto fuori dalle mura del Comunale anche per questo motivo, lavorando con Elena Di Gioia. Tutta la città che qualche anno fa è stata idealmente il sentiero giallo di Dorothy, nel percorso dedicato al Progetto O-Z, ora diventa il regno di Sarastro. Ognuno di noi indossa una maschera, noi siamo vestiti da spettatori, loro sono vestiti da personaggi, ma è importante che si riconosca che tutti abbiamo un ruolo qui dentro.

Pensando al contesto, vorremmo capire qualcosa in più rispetto alle domande che vi siete posti pensando al pubblico dell’opera, a quell’universo così distante eppure così vicino al nostro del teatro contemporaneo, sia dal punto di vista della creazione che dell’abitare la città.

Elena Di Gioia: anche il lavoro sulla città in fondo ha a che fare con le lenti, con l’osservazione. Il tentativo è stato quello di lavorare sulla città con l’immagine proposta dal 3D, come quell’occhio che apre scrutando il secondo atto. È come immaginare il palazzo di Sarastro più largo del teatro e che si estende nella città. Sicuramente con il Teatro Comunale siamo di fronte ad un pubblico consolidato, e in questi giorni, con progetti di questo tipo, assistiamo a una grande opportunità: la possibilità di far interagire i pubblici, ed è quello che è avvenuto anche nel ciclo di incontri in città. Sono pubblici che hanno passioni differenti, che a volte si intrecciano e a volte non ancora. C’è il pubblico degli appassionati dell’opera o quello degli appassionati del Flauto magico, che forse non conoscono Fanny & Alexander e potranno ritrovarli a teatro in futuro; viceversa c’è il pubblico di Fanny & Alexander, che è entrato per la prima o magari per la seconda volta al Teatro Comunale.
Tutti i luoghi, a maggior ragione quelli consolidati, hanno una questione con le soglie, con l’accesso. La domanda di sempre riguarda il tentativo di condividere il fuoco, quello spazio incendiario che è l’arte e la bellezza. Qui la scelta è caduta su due contesti in particolare, il Museo della musica e il Future Film Festival, due fili da tirare rispetto al Flauto Magico. Il Museo della musica è uno dei luoghi mozartiani in città, contiene una serie di tracce e opere legate a Mozart e a Padre Giovanni Battista Martini. Il Future Film Festival ci è invece sembrato importante come luogo in cui approfondire il lavoro di Zapruder filmmakersgroup, concentrandoci sul 3D. In entrambi i luoghi abbiamo verificato la presenza di una comunità mista, una compresenza bella e necessaria di pubblici con piccole o grandi porte che si aprono.
Lo sguardo del bambino che ci guarda è la lente che va posta sulle città, in questo modo riusciamo a condividere quel fuoco, una grande responsabilità per chi progetta e programma.
È necessario trovare modi per allargare quel passaggio, fare in modo che il percorso per disegnare nuovi pubblici venga ampliato, condiviso, inventando e “consegnando il fuoco” di volta in volta

C.L.: Durante la creazione non abbiamo troppo pensato alla diversità dei pubblici, ma all’opera stessa. Ho due aneddoti: uno ricorre spesso, e riguarda persone che conosciamo e amici intimoriti per il fatto di non avere mai visto un’opera. Alla fine sono usciti tutti affermando che il tempo fosse volato! L’altro riguarda una signora abbonata. Mi è stato riferito che all’inizio fosse molto diffidente, non sapesse come gestire gli occhialini, le sembravano brutti, non voleva metterli. Nell’intervallo ha incontrato una sua amica e si è messa quasi a urlare: «Bellissimo!». Racconto questi episodi perché penso che riassumano bene il fatto che in realtà ogni tanto siamo spaventati di noi stessi. Succede quando entriamo in un luogo che ci è estraneo, che ha un codice diverso da quello a cui siamo abituati, fatto che non è per nulla rassicurante. Abbiamo paura di noi stessi prima di tutto. Invece in questo caso credo che abbiamo costruito e creato insieme una fiducia, anche grazie al lavoro di Elena Di Gioia. Abbiamo provato a metterci al servizio del “fuoco” di Mozart, e questo ha creato tranquillità sia artistica che per il pubblico.

Eppure l’attesa era tanta, anche quella di chi ha uno sguardo filologico sulla tradizione. In questo senso, quale è stato il lavoro più “teatrale” con i cantanti? Penso al modo di recitare, ai costumi, da te disegnati…

C.L.: Credo che abbiamo tentato di lavorare con i cantanti come lavoriamo sempre con i nostri attori. I cantanti hanno necessità diverse dagli attori, anche semplicemente considerando l’estrema difficoltà della prestazione canora. Spesso nelle opere i recitati sono costruiti all’insegna dell’enfasi attoriale, e inizialmente la nostra necessità di portare tutto su un tono medio, piccolo, in sottrazione era certo una richiesta particolare per loro. Ma quasi subito, in realtà, la nostra proposta è stata bene compresa e i cantanti hanno lavorato con noi in maniera molto seria. Siamo molto contenti perché si tratta di un cast dinamico ed estremamente disponibile. In questo c’è stata anche la grande sintonia che abbiamo riscontrato con Michele Mariotti, grandissimo artista e persona bellissima, molto amato da cantanti, pubblico e dentro il teatro, la cui proposta musicale “delicata” e forte al contempo da subito è risultata una vera fonte ispiratrice per tutto il nostro progetto.
Con i cantanti abbiamo costruito insieme i personaggi, dopo un percorso iniziale che ci ha portato a sintonizzarci sulle loro esigenze. Abbiamo proceduto dialetticamente con un sano costruttivo dialogo. Come i grandi attori di prosa, ognuno di loro è portatore di tante Regine della notte, tanti Papageno, tante Pamina e questo ha fatto inevitabilmente nascere dialoghi sui personaggi, domande, idee, proposte sia durante le prove sia durante il disegno dei costumi e in sartoria. Per esempio la battuta di Papageno «Sangiovese, che buono!» è un’invenzione di Nicola Ulivieri, a noi sembrava efficace e l’abbiamo inserita nei recitati. Posso dire che con ognuno di loro c’è stato un processo di ragionamento drammaturgico condiviso, magari concentrato su dettagli piccoli ma fondamentali.

Io, come sapete, sono una drammaturga e ho sempre pensato che la costumistica fosse un’appendice della drammaturgia. Non ho fatto scuole, non ho una competenza tecnica e questo progetto è stato sicuramente il mio più grande cimento. Ieri Monica Bolzoni (stilista con la quale Fanny & Alexander ha collaborato in diverse occasioni, ndr) mi ha detto che è molto chiara la funzione che esercitano i costumi. Questo per me è stato un complimento bellissimo, il tentativo che ho fatto è stato proprio quello di disegnare costumi che dessero un’informazione quasi araldica del personaggio che vestono. Penso che il costume funzioni come il testo: è riuscito se riesce a dare un’indicazione sul personaggio. Ho fatto un lavoro che mi ha molto divertito, andando a studiare il modo in cui erano stati vestiti i personaggi nelle edizioni precedenti. Per esempio volevo che Sarastro avesse un costume pieno di luce e che lo facesse sembrare gigantesco, partendo da un attore già molto alto.

Il lavoro è pieno di dettagli che colpiscono, un florilegio di invenzioni anche dal punto di vista attoriale, del canto. Per esempio Pamina e Papageno che cantano il loro duetto sull’amore seduti con le gambe a penzoloni in proscenio. Oppure, e questo non è un dettaglio, il coro che entra dal retro e canta disposto in platea.

C.L.: tutti i dettagli di cui parlate sono in realtà decisioni frutto di un percorso di dialogo che abbiamo preso insieme al Direttore e all’orchestra, nel rispetto di una delicatezza musicale. Per esempio tutte le scelte che in qualche modo avvicinavano i cantanti a Mariotti e al pubblico erano favorevoli alla resa musicale, perché lui voleva lavorare su toni piccoli. Spostare il coro in platea alla fine del primo atto è stata una scelta inizialmente delicata ma per noi molto forte dal punto di vista drammaturgica: se il coro, che è vestito con le divise delle maschere del teatro, non arrivasse dalla platea la prima volta che lo vediamo non si sarebbe capito davvero il discorso sul teatro-comunità. Era importante che si ottenesse questa sensazione di avvolgimento, prossimità, che il pubblico si stupisse: ma come, le maschere si sono messe a cantare?!

Luigi De Angelis, Il Flauto Magico può essere attraversato partendo dalla visionarietà della macchina scenica e scenotecnica che avete ideato. Ci racconti come è nata?

Studiando la biografia di Mozart scritta da Maynard Solomon mi sono imbattuto in una lettera scritta dalla sorella di Mozart. Lì si racconta che il fratello, quando facevano queste lunghissime turné in Europa, si fosse inventato un mondo speciale, il Mondo del Didietro, in cui lui era il principe assoluto e non potevano esistere adulti, c’erano solo bambini. Leggendo sono rimasto subito molto colpito, infatti ho sempre pensato che Mozart fosse un fanciullo, e lo fosse rimasto fino all’ultimo. Non è un caso che Il Flauto Magico, la favola dell’iniziazione al mondo adulto, sia arrivata alla fine della sua vita. A partire da questa idea è nata la suggestione creare un legame con il film Fanny & Alexander di Bergman, nella cui sequenza iniziale si scopre il bambino Alexander dietro un teatrino in una casa totalmente solitaria. Gli adulti non ci sono, lui cerca sua sorella Fanny. Questa solitudine, che è anche un po’ malinconia, innesca il gioco con il teatrino, il “parto-di-fantasia” che fa scattare l’immaginazione. Quasi contemporaneamente è nata l’idea di onorare un grande precedente che è Il Flauto Magico di Bergman, film prodotto per la televisione svedese dove viene utilizzato un meccanismo scenico molto particolare. Si tratta del teatro della corte svedese a Drottningholm, vicino a Stoccolma, un teatro del ‘700 molto piccolo con meccanismi barocchi che permettono cambi di scena molto veloci. Non va dimenticato che Il Flauto Magico è uno Zauberstuck, un tipo di opera che cercava di colpire l’immaginazione dello spettatore anche tramite effetti scenici e cambi di scena mirabolanti, per immergerlo in una situazione di immediata fantasticheria. Con Nicola Fagnani abbiamo cominciato a ragionare sul dispositivo scenico per il Flauto e abbiamo deciso di riprendere il meccanismo stesso di Drottningholm. Lì ci sono sistemi di moltipliche che permettono, con un solo movimento, di passare dall’ambientazione del bosco a quella della notte cambiando le scenografie in modo rapido e “magico”. Il desiderio, però, non era quello di arrivare a produrre una riproposizione filologica, ma soltanto di riprenderne il meccanismo. Sono i due registi-bambini che guardano il Flautoe lo determinano dall’esterno in tutte le sue declinazioni sceniche. I bambini dovevano potere azionare questi cambi scena mirabolanti assecondando la partitura scenica, che ne è piena. È nata così l’idea di creare una “sintesi”, costruita con i colori fondamentali legati all’idea delle ambientazioni principali del Flauto, anche pensando al fatto che i bambini non avessero la maestria necessaria per costruirsi delle vere e proprie scene ma avessero a disposizione forse solo delle stoffe. Il bosco è verde, il palazzo di Sarastro è rosso, e qui subentra il concetto alchemico di “rubedo”: tutto Il Flauto Magico è un percorso iniziatico alchemico dominato dal giorno e dalla notte, due mondi apparentemente opposti ma sporcati uno dall’altro. Non a caso ci sono alcuni personaggi che all’inizio appaiono più luminosi ma si muovono nel buio, quindi sono collegati alla “nigredo”, oppure personaggi ricondotti inizialmente a una connotazione negativa e che in realtà appariranno più luminosi, in una loro “albedo”. Il rosso è la sublimazione finale del processo alchemico, la “rubedo”, e Sarastro è colui che incarna in sé il processo alchemico, il puer e il senex, la bilancia perfetta fra le due cose.
Abbiamo già detto di come il mondo della notte non potesse che essere il nero, collegato alla “negredo”, ma anche il blu per la sua profondità. Nel secondo atto entriamo in luoghi che molto hanno a che fare con il femminile, collegati a una luna calante e nera, e qui le scene, per la prima volta, hanno forme tonde e dunque femminili. È stato in quel momento che ci siamo accorti della possibilità di giocare con i nostri siparietti come fossero dei diaframmi ottici, per indicare ancora questa ossessione dello sguardo, creando un meccanismo nel quale i due bambini guardano dall’esterno gli spettatori – e dunque è la scena che ci guarda – ma allo stesso tempo noi guardiamo loro: dall’interno si spia, dall’esterno si spia, noi siamo come loro e loro come noi, c’è una specularità ricercata. Si vorrebbe che qui fosse chiara la necessità di un atto di responsabilità, una testimonianza attiva come quell’occhio che guarda all’inizio del secondo atto.

Un’idea che rimanda alla necessità di credere nell’illusione, però restando vigili, sapendo che in qualche modo c’è una manipolazione in atto…

L.D.A.: Tutto il mondo fantastico a cui si riferisce il Flauto è costruito attraverso una macchina mirabolante che costruisce visioni, che “conduce” chi guarda. In certe scene ciò è reso in maniera esplicita, facendo vedere allo spettatore il meccanismo, i “fili” che vengono tirati per ottenere l’effetto. È esplicitato il fatto che quando si fa arte si manipola sempre, ma in maniera giocosa.
L’altro elemento di illusione è il 3D anaglifo, che nasce dall’idea di potere immergere lo spettatore direttamente nel Reame del Didietro. Con David Zamagni di Zapruder notavamo che, una volta che si indossano gli occhiali, accade qualcosa che ha l’effetto di fare sentire di meno, come se il suono cambiasse, perché davvero con gli occhiali si è da un’altra parte. L’anaglifo richiede un’assunzione di responsabilità: gioco o non gioco? Mi metto gli occhiali o no? Ovviamente c’è l’idea di una visione tattile, che permette di entrare in contatto con quello che si vede, pensando alla profondità oppure quando alcuni oggetti vengono immessi nel questo teatrino-modellino, nel mondo edenico primordiale dal quale i bambini ci guardano. In quel momento è presente un invito diretto rivolto a noi spettatori, come se quel flauto fosse lì per noi: è a noi che le tre dame offrono il flauto, siamo noi spettatori a doverlo prendere.

Prima parlavi di un Eden, il luogo da dove i bambini ci guardano…

L.D.A.: A mio avviso, è molto importante notare che i bambini ci guardando da un Eden sospeso. Non è casuale che ci sia un serpente all’inizio, i due bambini diventano un po’ come degli Adamo ed Eva di questo mondo del Flauto. Il serpente è una minaccia ma anche un gioco che fa scaturire tutta la narrazione. Il Flauto Magico è un’opera sull’ambiguità, le figure non sono a tutto tondo, sono sporcate da una traccia del loro opposto. La musica stessa è continuamente sinuosa, come un serpente, che è una figura che non può andare in linea retta, se si traccia una linea il serpente procede a sinistra o a destra. Non a caso il serpente è una figura mercuriale, legata a Ermes, la divinità della connessione tra i mondi, tra il cielo e la terra, il messaggero che permette di ricevere dei messaggi e che obbliga a porsi delle domande (e infatti l’ermeneutica nasce della figura di Ermes).

La simbologia della scena rimanda anche alla massoneria in maniera molto diretta…

L.D.A.: Mi sono interrogato molto sulla massoneria, ma l’emersione delle figure e dei triangoli dei simboli è arrivata anche un po’ da sola, non l’avevamo prevista da subito. Lavorando su Cad, al computer, e cambiando dei dettagli sono emersi dei triangoli. Nella nostra visione, devo sottolineare come la fratellanza (che noi non chiamiamo massoneria) rappresenti il Mondo del Didietro che ha fatto i conti col mondo adulto. Lo suggerisce Solomon: si dice che per Mozart l’unica possibilità di conciliarsi con il mondo adulto fosse trovare un nuovo Reame del Didietro, la massoneria, quella cosa nascosta, sotterranea, che richiedeva una purezza di adesione, temi molto forti nella vita di Mozart. Per esempio il coro, nella nostra visione iniziale doveva essere addirittura il pubblico. I coristi dovevano essere tra il pubblico, in po’ come nel Flauto di Bergman dove all’inizio ci sono i primi piani di tantissimo volti degli spettatori. Non è stato possibile, anche per una questione di compattezza musicale, così abbiamo deciso di trasformarli nel personale del teatro, con l’idea che fossero personaggi “della comunità”.

A livello artigianale, quanto tempo avete impiegato, e in che modo, per ideare e realizzare la scena?

L.D.A.: Io e Nicola Fagnani abbiamo lavorato sul progetto per due anni, a livello di ideazione, poi c’è stata la fase di progettazione scenica ingegneristica curata tutta da Nicola Fagnani, altrettanto complessa. Si è trattato di lavorare con disegni e bozzetti, decidendo come dovesse essere fatta la scena, stabilendo la profondità, scegliendo quanti diaframmi creare, immaginando e pensando tutti i movimenti di scena e le trasformazioni. È tutto catalogato, anche se facendo la regia sono cambiati molti dettagli. A settembre 2014 il catalogo di movimenti e passaggi era stato già fatto. Si tratta di 66 movimenti di scena, 66 chiamate che ne contengono altre al loro interno. La scena è composta da 40 pezzi principali, con 14 macchinisti che li muovono e li coordinano in tempo reale, anche perché il Teatro Comunale ha un palcoscenico molto antico che necessita di molte persone per fare muovere le scene. Uno dei passaggi più complicati è stata la necessità di “dare il nome” all’unione di movimenti e pezzi: descrivere nel dettaglio a cosa corrispondesse “movimento 24”, poi individuare una specie di nomenclatura, di lingua tecnica fatta di segni e posizioni, infine operare una suddivisone per “luogo”: per capirci, un macchinista potrebbe occuparsi di manovrare solo una determinata corda, ma per farlo ha bisogno dei numeri dei movimenti indicati e di istruzioni chiare.

Hai parlato di “fare la regia”. Come questo percorso è stato diverso dal modo in cui solitamente sei abituato a lavorare?

L.D.A.: A livello registico, ho fatto le stesse cose che faccio sempre: guidare gli attori, metterli in relazione con un ambiente scenico, creare un dialogo con l’ambiente musicale… in questo caso la differenza grossa stava nell’essere eterodiretti da una drammaturgia di base già esistente, ma anche nella necessità di lavorare separando le diverse fasi e strati del lavoro. Si tratta sicuramente del progetto più complesso al quale io abbia mai lavorato, in questo campo i diversi ruoli sono distinti, esiste una scala gerarchica forte sulla quale siamo riusciti a intervenire lavorando in equipe. Per esempio con Greta Benini, che si è occupata del coaching dei cantanti, abbiamo lavorato insieme sulla riscrittura dei dialoghi. Mentre io mi occupavo della regia musicale, Greta Benini e Chiara Lagani lavoravano contemporaneamente sull’impostazione dei dialoghi. Anche per questioni di tempo, c’è stata dunque l’esigenza di lavorare con “batterie” diverse che poi sono state riunite.
In effetti, un’altra differenza rispetto a come lavoriamo di solito è stata la necessità di avere tutto nella mente, con poca possibilità di modificarlo e di “giocarlo” sulla scena. Dopo il debutto, a livello di creazione lo spettacolo va considerato concluso, mentre nel nostro lavoro “tradizionale” può succedere di rimettere in discussione anche intere scene nel corso delle repliche. Devo però dire che tale aspetto non mi ha mai davvero preoccupato, la struttura di questa rappresentazione è talmente complessa e stratificata che va “seguita”, è lei che ti eterodirige.

Questo vale anche per le esperienze precedenti nell’opera? Pensiamo a South/North, o più direttamente a Dorothy. Sconcerto per Oz?

L.D.A.: In Dorothy. Sconcerto per Oz la composizione e la creazione della struttura registica erano nate nello stesso momento, intrecciandosi. Qui sarebbe stato impossibile, anche pensando alla necessità di procedere seguendo l’ordine mozartiano. Come mi piacerebbe, adesso, tornare al “disordine punk” delle Europeras di John Cage! Infatti nel prossimo nostro progetto, Kriminal Tango (in debutto al festival delle Colline Torinesi), stiamo cercando di creare un percorso che alla fine permetta di perderci nella musica.

Come è stato il lavoro con il direttore d’orchestra, e con i suoi ambiti di intervento nell’orchestrazione generale?

L.D.A.: Nel Flauto Magico il rapporto col direttore Michele Mariotti è stato decisivo. Io ho sempre avvertito un approccio “erotico” quando penso alla regia, e ho ritrovato questa tensione anche nel suo rapporto con la musica. Evidentemente non possiamo evitare di parlare di Mozart, la cui musica è come se indicasse delle questioni registiche. Faccio un esempio. Anche se io non capisco cosa dicono i cantanti, dal momento che la loro lingua è il tedesco, riesco comunque a intuirne le questioni principali a livello narrativo. La musica di Mozart riconduce a precise temperature emotive, fa apparire delle figure, come nel caso del terzetto delle tre dame. Lì i personaggi eseguono delle scale musicali che suggeriscono che si tratti non di donne ma di galline che chiocciano. La musica di Mozart è piena di figure come questa, ti guida, va diritta al cuore, e noi l’abbiamo seguita e assecondata, cercando di sottolineare una lettura del Flauto in cui sia indispensabile attivare una “conoscenza del cuore”. Venendo a questioni più artigianali, uno dei problemi che inizialmente abbiamo dovuto affrontare è legato al fatto che la scenografia assorbe molto la voce, Mariotti mi ha quindi chiesto di portare il più possibile in avanti i cantanti. Io ho accettato, con non pochi bracci di ferro! Abbiamo tra di noi un gioco in atto su cosa uno debba cedere all’altro, ci mandiamo degli sms con i punteggi! Siccome adesso io sono in vantaggio, gli sto chiedendo di indossare gli occhialini 3D per l’ultima replica… vediamo se accadrà!

Dal punto di vista registico tutto è fissato, secondo una logica musicale. La regia è stata costruita tutta sulla musica, onorando al massimo la partitura orchestrale ma anche la notazione per pianoforte e voci. Come dicevo, l’unico rammarico è quello di non avere avuto il tempo necessario per giocare sul palcoscenico la regia, che è rimasta molto “mentale”. Se avessimo avuto più tempo certi passaggi e meccanismi avrebbero guadagnato in complessità. Per esempio nel progetto iniziale il medaglione con l’immagine della bambina-Pamina era pensato per assumere diverse forme, come un otturatore che si chiude e si riapre secondo figure geometriche differenti. Non è stato possibile perché altre urgenze avevano la priorità, e abbiamo dovuto rinunciarvi. Gli spettatori devono ricordarsi che i due bambini sono sempre lì dietro a giocare, creando immagini e fantasmagorie.

di Lorenzo Donati, Serena Terranova

fotografia di Rocco Casaluci

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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