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Il dispositivo delle relazioni umane nel teatro di Giovanni Ortoleva

di Giuseppe Di Lorenzo

Nella recensione di Lancillotto e Ginevra uscita per Rumor(s)cena, il critico David Della Scala ha definito lo stile registico di Giovanni Ortoleva come “post rock”. Il post rock si qualifica essenzialmente nell’uso della dinamica come elemento estetico fondamentale nella composizione. In musica la dinamica è l’intensità del suono, l’uso cioè dei “crescendo” e dei “diminuendo” che modificano sensibilmente l’espressività di un pezzo, come il lungo distendersi di trame sonore intimiste dopo una estenuante cavalcata di accordi hardcore. Ecco, non è esattamente un teatro “dinamico” quello di Ortoleva, non che non ci siano i crescendo e i diminuendo, ma l’intreccio armonico ricorda più quello sgangherato dei Gang of Four, le trame ritmiche invece sono un po’ prevedibili à la Ramones, ma è evidente che ciò che smuove la musica della sua regia è la parola, non tanto la parola in sé, ma come questa viene detta. Insomma, in verità è un po’ “post punk” Giovanni Ortoleva, con quei tic e il nervosismo anticapitalista che definiva quella scena, nel bene e nel banale. E ci sono momenti in cui questo approccio, questo atteggiamento (attitude, si direbbe nella critica rock) aiuta lo spettatore a entrare nel nucleo umano delle vicende, e delle altre invece in cui rischia di esporsi troppo come dispositivo tecnico, spostando la nostra attenzione sull’ingegnosità dei meccanismi formali e non sulla storia.

L’approccio al testo di Ortoleva può sembrare eccessivamente furtivo, poche modifiche e quasi tutte ininfluenti a ben vedere, ma questo perché la componente autoriale emerge dalla testualità. Si tratta in realtà un lavoro di fino, continuando con la metafora musicale: mentre la sezione ritmica impone uno standard 4/4 (prossemica geometrica, cambi di scena inesistenti, voci che non si sovrappongono) l’armonia la fa da padrone con gli sguardi, i gesti, la composizione stessa dello spazio che produce la solitudine dei corpi o il loro ritrovarsi. La punteggiatura originale di Ortoleva emerge in queste occasioni di raccordo, tra una parola e l’altra, cercando di seguire le orme dell’autore senza sovrapporsi ad esso, ma standogli di fianco.

(foto di Andrea Avezzù)

Questo approccio è palese nella messa in scena de I rifiuti, la città e la morte, difficile e scivoloso testo di Rainer Werner Fassbinder, in cui razzismo e pregiudizi tipici della Germania del secondo dopoguerra serpeggiano senza tentare di nascondersi più di tanto. Dopo l’esordio alla Biennale di Venezia del 2020, ho potuto vederlo nella replica del Festival delle Colline Torinesi al Teatro Astra di Torino, in cui il già presente spazio nero sembrava completare naturalmente la scenografia dominata da questa lunga passerella nera a forma di croce. Ortoleva non edulcora né massimizza l’opera di Fassbinder, e probabilmente lo fa per non sporcare la preziosa prosa dell’autore tedesco: semplicemente ci restituisce quella profonda pietà e compassione che ogni suo film o sceneggiatura esprimono senza pudore. Dovremmo provare disgusto per alcuni personaggi, come l’Ebreo (Gabriele Benedetti) o la prostituta Roma B. (Camilla Semino Favro), anche perché non vengono dismesse le asprezze dei loro caratteri, sentimenti come l’invidia e l’avidità li smuovono più di una volta da un torpore malaticcio, e non si nascondono sfumature che potrebbero sostenere i pregiudizi che li contraddistinguono, eppure proviamo compassione per loro e, perché no, affetto. A parte la bravura degli attori stessi, ben sette in scena, di cui particolarmente imprevedibili e affascinanti le interpretazioni di Edoardo Sorgente e la già citata Semino Favro, è anche il modo in cui Ortoleva decide di farli interagire in scena che ne esalta le caratteristiche. Nei momenti di dialogo gli attori sono quasi sempre fermi assolutamente frontali alla platea, con quella staticità che fa intravedere l’impronta decostruttiva di Antonio Latella, ma a quella staticità Ortoleva controbilancia un costante dinamismo nelle seconde linee, i personaggi infatti continuano a interagire “fuori scena” dove avvengono micro-azioni che arricchiscono la visione senza disturbarla. Sì perché non ci sono cambi di scena né quinte, chi è in scena lo è perché sta parlando, gli altri stanno seduti intorno alla passerella, chi lontano in fondo, chi più vicino ai lati, e fuori dalle luci i corpi sembrano comunque pronti a vivacizzarsi da un momento all’altro, come se la città fosse il palco e ai bordi continuasse a sgusciare nell’ombra la vita della periferia. In questo spettacolo non c’è solo la degenerazione dei costumi di una città moderna e quindi la sua dubbia morale, ci sono relazioni umane, personaggi reali che cercano di seguire una parabola che sembra come la più plausibile secondo ciò che la società si aspetta da loro. Sembrano sempre al limite del crollo nervoso, in spasmodica attesa che l’applauso del pubblico sancisca la loro accettazione come membri funzionanti della collettività.

Sebbene non manchino le sbavature, l’intelligenza e la morbidezza con cui ci si approccia a un testo così abrasivo costituiscono il segno distintivo di una personalità che vuole emergere. Ma questo criterio registico può rivelarsi problematico nel momento in cui il dispositivo diventa predominante sulla storia e sulle relazioni. Come un bravo musicista che sa giocare con l’arrangiamento diventa importante mettere in luce gli aspetti brillanti della composizione, cercando magari di nascondere qualche incertezza o banalità: basta poco, però, perché la magia s’interrompa e rimanga solo un’equazione prossemica ben riuscita.

(foto di Giulia Lenzi)

È ciò che forse accade in Lancillotto e Ginevra (visto al Fabbrichino di Prato). Se i primi venti minuti dello spettacolo, con il loro ritmo ipnotico, mostrano una brillante composizione di testi e una recitazione che va a “incrinare” i consueti parametri di bellezza, lo spettacolo rischia poi di incagliarsi sul suo stesso dispositivo, diventa un interessante e intelligente excursus sulla figura di Lancillotto (di nuovo Edoardo Sorgente) e sulla cavalleria, in cui Ginevra prende pieno possesso del suo personaggio nell’ultimo quarto d’ora – parlo della scrittura, perché Leda Kreider ha gestito con grande sapienza i dubbi e le rotture di questa Ginevra, progressivamente sempre più disillusa dai valori che avrebbero dovuta salvarla dalla finzione, per abbracciare l’amore divino. La scena è essenziale, le armature dei due protagonisti formano nuovamente una piccola croce al centro del palco, di nuovo la testualità come conseguenza di precisi movimenti, Sorgente quasi fermo nel centro della scena, Kreider che all’inizio interpreta vari personaggi girandogli intorno, in questo gioco statico-dinamico che ancora una volta impreziosisce il testo donandogli una vitalità inaspettata. Eppure questa bellissima relazione prossemica pare concludersi troppo presto: il resto dello spettacolo si concentra infatti sul dialogo serrato tra i due, spesso bloccati dai microfoni (portati in scena durante lo spettacolo da un tecnico, una reminiscenza latelliana che rischia di rompere il ritmo visivo della pièce). Ciò che accade è che, impaludandosi gli attori, emerge il dispositivo. Mi chiedo se in questo brillante dispositivo fatto di botta e risposta e intensi crescendo non ci sia il pericolo di spostare l’attenzione lontano dalle relazioni umane, che sono il nucleo emotivo grazie al quale entriamo in connessione con i personaggi oltre il velo romantico della mitologia arturiana.

Gli ideali anacronistici ma terribilmente contemporanei di Lancillotto sono ciò che dovrebbe far smuovere il nostro animo. Lancillotto non è come l’Ebreo di Fassbinder, che sebbene ci mostri un florilegio di motivi per odiarlo ci offre allo stesso tempo diversi spunti per provarne pietà. Lancillotto è chiaramente costruito in modo che la sua parabola sia il contrario di quella dell’Ebreo: lo conosciamo come impavido cavaliere che farebbe di tutto per salvare l’amata regina, per poi progressivamente trovare ripugnanti il suo machismo e l’eroismo manicheo che lo porta a compiere massacri indicibili per un’ideale di amore irraggiungibile e insensato. Sembra quasi che ci sia stata una sorta di fascinazione iniziale a una immagine e a un movimento (quello febbrile e ipnotico dei primi venti minuti), ma ai quali non si è saputo o voluto dare una continuità. A quel punto il rischio di questo approccio, che ne I rifiuti viene affrontato mettendo in luce gli aspetti umani della vicenda attraverso la testualità dei corpi, qui invece a causa della staticità di questi sfocia nell’ambiguità della storia di Lancillotto, che non sembra più una critica a un modello di amore che ancora oggi viene evocato nelle narrazioni di qualsiasi media, ma quasi una semplice constatazione di questo, attraverso la bravura dei due attori, messi comunque a loro agio nel mostrare uno spettro di emozioni per niente banale e stratificato.

C’è una tensione nei lavori di Ortoleva che non lascia mai indifferenti, ed è certamente legata al sottile gioco di equilibrismo tra registri apparentemente opposti. C’è il “post punk”, che si evince dalla voglia di rompere dei cliché formali e dalla vivacità dei cambi di ritmo, ma al tempo stesso c’è anche un sobrio approccio “new wave”, che preferisce mettere in ordine invece che stravolgere, che sa esaltare la tecnica rendendola addirittura ballabile. È un difficile bilanciamento in cui il rischio più evidente è l’algidità, la distanza siderale che viene parzialmente colmata dalla bravura tecnica che appaga l’appassionato, ma al tempo stesso questa distanza è necessaria per mostrare la complessità dietro le relazioni umane, che solo così possono ambire a rappresentare qualcosa di più universale. Se c’è un album “post punk” al quale Ortoleva sembra tendere quello è Zen Arcade degli Hüsker Dü, un manifesto rabbioso registrato alla meglio e peggio nel 1984, un disco fatto di chitarre al fulmicotone e liriche biascicate, che non edulcora la realtà ma vuole restituirla nella sua crudezza, sia nei momenti di periferica malinconia e straziante tristezza, sia nel tiepido calore dell’amicizia e nell’infinita speranza dell’alba.

(foto di copertina di Giulia Lenzi)

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