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Il deserto di "Winnie" e dei "Giorni felici" di Beckett

di Altre Velocità

Ancora un giorno felice!: uno studio su Giorni felici ideato da Silvia Magnani (attrice) e Marco Cavicchioli (regista). Il monticello di terra che ricopre Winnie (la protagonista) nell’originale è qui sostituito da un chiosco, una cabina rovesciata recante la scritta “Happy Days”. La saracinesca, alzandosi, lascia visibile solo il busto (nel primo atto) e poi esclusivamente la testa dell’attrice (nel secondo). Vicino a lei vi è la sporta nera, da dove trae gli oggetti di scena: spazzolino e dentifricio, pettine, pistola. Winnie è l’unico personaggio in scena, la parte di Willie è infatti ridotta all’osso e sostituita da una voce registrata. Il fruscio del nastro ed il suono dello stacco del registratore recano suggestioni di un altro capolavoro di Beckett, L’ultimo nastro di Krapp. Il testo, salvo pochi tagli, è scandito con fedeltà, creando un percorso di accenti lessicali e contenuti movimenti, che si esauriscono in una mappa tracciata da viso e occhi quando la sola testa rimane protagonista sulla scena. Giorni felici è un testo che mette in difficoltà l’attrice, riesce letteralmente a insabbiarla, a costringerla su poche azioni limitandone l’uso delle gambe e la proiezione nello spazio. Winnie deve quindi concentrarsi su micro-movimenti che facciano risaltare un’espressività facciale e vocale. Silvia Magnani brillantemente riesce in questo compito articolando la sua stipata gamma di soluzioni. La sua bocca è il focus attoriale su cui animare movimento e suono, come accertiamo mentre intona differenti note ispezionandosi i denti. L’adesione ostinata al testo – non solo la parte recitata, ma soprattutto il fitto groviglio di didascalie con cui Beckett prescrive minuziosamente ogni movimento e tono – inchioda la scena limitando possibili stati di sorpresa o apici ritmici, intrappolandola nei gangli del linguaggio di Giorni felici, proprio come accade a Winnie. È questo il linguaggio vacuo della società borghese, spettacolarizzata e messa in mostra che Beckett rilevava ai tempi della scrittura del suo dramma (1961) e che nella società contemporanea è diventato dominante, quel «deserto» della comunicazione in cui Winnie vive e che la porta allo sgomento, non sopportando che le sue parole non trovino interlocutore. Riesce ad andare avanti esclusivamente perché qualcuno la «sta ancora guardando», riferimento metateatrale al pubblico in sala. C’è da chiedersi come le problematicità di questo testo possano venire comunicate in una società che le ha ormai completamente assorbite senza metterle in discussione. La scelta monologante di questa messa in scena risolve a metà la questione: amplificando, da una parte, con la solitudine di Winnie l’alienazione e la dispersione di senso (il fatto che Willie nel finale non appaia lascia la donna sola a farneticare con una pura presenza immaginaria), ma lasciando, dall’altra, come solo sostegno per lo spettatore il torrente vocale ed espressivo della protagonista.

Matteo Boriassi

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