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I sentieri selvaggi del teatro ucraino. Conversazione con Yaroslava Kravchenko 

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa e inaugura un ciclo di interviste e reportage dedicati all’Ucraina.

Circa tre anni fa a Kiev morivano le prime persone in piazza dell’Indipendenza, chi nella violenza degli scontri con la polizia, chi ucciso da proiettili di cecchini sulla cui identità non esiste ancora una verità condivisa. Era il culmine del vasto movimento di protesta “Euromaidan” e l’inizio di una nuova fase della storia dell’Ucraina, i cui stessi confini ne usciranno modificati. Dopo le cruente giornate del 18 e del 19 febbraio 2014, infatti, il presidente Viktor Yanukovich è fuggito dal paese mentre la Crimea ha iniziato un processo di separazione dal territorio ucraino, foraggiato anche dall’intervento di unità militari russe. Il 17 marzo, a seguito di un referendum popolare (la cui legittimità è tuttora contestata da molti stati), la penisola di Sebastopoli diventa ufficialmente parte della Federazione Russa. Di lì a poco – come in una sorta di “effetto domino” – anche la parte più orientale dell’Ucraina (“Donbass”) vede la nascita di due repubbliche autoproclamatesi indipendenti: la Repubblica Popolare di Donestk e la Repubblica Popolare di Lugansk. Si tratta dell’avvio di un conflitto fra i “ribelli” separatisti (pure in questo caso, quasi certamente appoggiati dalla Russia) e l’esercito nazionale ucraino, che continua ancora oggi nonostante gli accordi per il cessate il fuoco di “Minsk” e “Minsk – 2”.
Con l’Ucraina come terreno di scontro, a un livello geopolitico sono in realtà le due grandi superpotenze Stati Uniti e Russia a farsi la guerra. Se i primi hanno appoggiato la rivolta di Euromaidan attraverso affiliati locali (in modalità analoghe ad altre “rivoluzioni colorate” dello spazio post-sovietico), in un’ottica di assorbimento della repubblica est-europea nella propria sfera d’influenza, la seconda non ha esitato a utilizzare la forza militare per scongiurare appunto qualsiasi tentativo di espansione della NATO verso oriente. È vero che buona parte del popolo ucraino vede il futuro del proprio paese nell’orbita europea o occidentale (le proteste, pur generate da svariati fattori e assumendo altre sfumature col passare del tempo, nascevano proprio contro la mancata firma di un accordo di collaborazione con l’UE da parte del presidente Yanukovich). Ma è altrettanto vero che esistono ampi strati della società contrari a simili evoluzioni e che, forse, non hanno avuto tutti i torti a temere un’escalation di repressione violenta nei propri confronti (il 2 maggio del 2014, con dinamiche ancora non del tutto chiarite, morivano bruciati vivi circa 40 manifestanti “pro-russi” nella casa dei Sindacati di Odessa, dove avevano trovato rifugio dopo scontri con un corteo “filoucraino”). Come spesso avviene in casi del genere, allora, sono le divisioni identitarie presenti nella società ucraina a essersi “acutizzate” attraverso i conflitti: Crimea e Donbass sono infatti aree a maggioranza etnica e linguistica russa, con una differente “composizione di classe” rispetto al resto (soprattutto il Donbass è una regione con grosse riserve di acciaio e carbone e in cui molti cittadini sono impiegati in tale settore); allo stesso tempo, con il movimento di Euromaidan, è venuto alla luce anche lo zoccolo più nazionalista e di ispirazione neo-nazista del paese, certamente minoritario ma con sempre più potere e legittimità (i gruppi paramilitari di Pravy Sektor e Svoboda, molto attivi durante le proteste, alcuni membri dei quali sono poi confluiti nel “Battaglione Azov” che combatte nell’est a fianco dell’esercito nazionale).  
In mezzo a questi processi, tante persone fuggono dalle zone degli scontri alimentando una diaspora interna che ha ormai raggiunto dimensioni notevoli (si contano circa un milione di “dislocati interni”). Abbiamo seguito un po’ le traiettorie di tale diaspora, incontrando registi e attori che prima vivevano in Crimea o Donbass e stanno ora proseguendo i propri percorsi artistici in altre città ucraine, nel tentativo di capire con loro il senso del fare teatro stretti fra guerra e crescente lacerazione sociale, il senso del – come è stato definito altrove – “teatro al tempo del colera”.

Ярослава Кравченко (Yaroslava Kravchenko) è la direttrice artistica del progetto Дикий Театр (Teatro selvaggio), prima “piattaforma” del teatro indipendente ucraino. Dopo avere lavorato per un decennio nel circuito statale (Youth Theater e teatro Ivan Franko a Kiev) ha deciso di fondare assieme ad altri professionisti una rete di spazi, spettacoli e artisti diversa da quella ufficiale, che favorisca lo sviluppo di pratiche sceniche alternative. Nato da poco più di un anno, Дикий театр ha già all’attivo sette produzioni, spesso all’incrocio fra diverse discipline artistiche (uno spettacolo-concerto sui Joy Division, un “thriller teatrale al circo”…).
Abbiamo incontrato Ярослава a Kiev, facendoci raccontare la sua idea di teatro e chiedendole una “visione d’insieme” della scena ucraina anche alla luce dei recenti proteste di EuroMaidan e dei conflitti in Crimea e Donbass.

Ci puoi raccontare come è nato Дикий Театр e il motivo per cui avete sentito l’esigenza di un progetto simile?

Дикий театр è nato in maniera abbastanza spontanea e naturale. Nella mia testa si trattava dell’esigenza di un teatro diverso da quello tradizionale, che parlasse un linguaggio vivo, attuale e connesso con la quotidianità delle persone. Soprattutto, di un teatro che tentasse di provocare un cambiamento forte nello spettatore, spingendo quest’ultimo verso i confini delle proprie emozioni. Credo si tratta dell’ambizione basilare di qualsiasi spettacolo ben fatto. Ma in Ucraina è difficile assistere a performance di questo tipo: in generale c’è molta paura di mettere in scena proposte nuove e provocatorie. I teatri statali non vogliono rischiare di perdere pubblico e si mantengono su produzioni “medie” che fanno sentire a proprio agio: commedie, classici…
Nella pratica, tutto è iniziato nell’estate del 2015 quando la giovane regista Ксения Скакун (Ksenja Skakyn) mi ha contattato proponendomi di realizzare uno spettacolo-concerto basato sulla vita e sull’opera di Ian Curtis. Mi è subito sembrata un’idea interessante e totalmente inedita per la scena ucraina. Abbiamo rappresentato lo spettacolo per la prima volta negli spazi post-industriali di Plaztforma, facendo in modo che il pubblico potesse partecipare come meglio riteneva: alcuni ballavano durante l’intera performance, altri piangevano commossi… Si era creata un’atmosfera nuova e stimolante, che abbiamo cercato di replicare nelle nostre proposte successive (Noi 2.0 di Максим Голенко – Maksim Golenko, Бути знизу di Юлия Мороз – Yulia Moroz…).

Diresti dunque che il pubblico che frequenta i vostri spettacoli è lo stesso dei teatri statali, oppure si tratta di una platea completamente diversa?

Ho lavorato dieci anni per teatri statali e ho avuto modo di osservare da vicino il pubblico che li frequenta abitualmente. Ora, dopo circa nove mesi del Дикий театр, posso dire che si tratta di un genere di spettatori assolutamente differente e, in qualche modo, “speciale”. È una comunità che si allarga e si rinforza allo stesso tempo: di solito, la metà degli spettatori che viene alle nostre perfomance è lì per la prima volta, mentre l’altra metà segue praticamente tutti gli spettacoli.
Credo che ci troviamo in un momento in cui le realtà indipendenti del teatro ucraino debbano provare a unirsi, è questo il senso del nostro progetto. Generalmente, è molto difficile per i giovani del nostro paese riuscire a entrare nei circuiti ufficiali. É appena stata approvata una riforma che in teoria dovrebbe offrire maggiori opportunità ai nuovi artisti e alle nuove compagnie ma si tratta in sostanza di un’operazione di facciata. Conosco molti validi professionisti che hanno presentato domanda di finanziamento ai concorsi ma, per un motivo o per l’altro, nella maggior parte dei casi sono stati riconfermate persone che già fanno parte dei teatri statali. Il sistema non vuole cambiare.
Ecco perché molti teatri indipendenti e associazioni culturali si stanno “coalizzando”: è il momento di mostrare al governo che in qualche modo “siamo qua”, produciamo, attiriamo spettatori e alcuni di noi girano anche festival europei.
Va detto che non è sempre facile o automatico: in molti casi persiste anche all’interno del teatro indipendente una mentalità chiusa e individualista, per cui spesso nei progetti si fa maggiormente caso al proprio ritorno personale che ai benefici per la collettività.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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