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Gibellina, le Orestiadi, la metafisica. Conversazione con Claudio Collovà

di Lorenzo Donati

Patalogo dieci, annuario dello spettacolo 1987«Orestiadi di Gibellina: con questa denominazione proseguono gli allestimenti teatrali sui ruderi di Gibellina, il paese siciliano distrutto dal terremoto del Belice del 1968. Dopo l’Orestea riscritta da Emilio Isgrò e messa in scena fra l’83 e l’85 da Filippo Crivelli con le macchine sceniche di Arnaldo Pomodoro, il Teatro dei Ruderi ha accolto due rappresentazioni estive ispirate, come la trilogia siciliana, a certi echi che trovano nell’isola profonde risonanze. Si è trattato di due spettacoli accomunati da quelle che si presentano come scelte di fondo della rassegna: registi giovani e scenografie create da artisti (quest’anno Scialoia e Pomodoro) e pensate appositamente per questo spazio non teatrale. I testi scelti erano entrambi nuovi per le scene italiane: Il ratto di Proserpina del siciliano Rosso di San Secondo, recuperato da Guido De Monticelli, e (come primo cenno di un programma che nelle prossime edizioni intende approfondire i rapporti con la civiltà araba) La tragedia di Didone regina di Cartagine di Cristopher Marlowe, allestita dal tunisino Cherif con le scenografie e i costumi di Pomodoro che evocavano insieme la classicità greca e l’arte primitiva africana»

Questa citazione dal “Patalogo” ci sembra un possibile abbrivio per approfondire le Orestiadi di Gibellina oggi, a oltre trentacinque anni dalla nascita del festival di teatro in provincia di Trapani. A prima vista, quello di Gibellina è un festival che unisce tradizione e innovazione, costruendo un cartellone che affianca nomi di richiamo e di solida tradizione (Servillo, Saponaro/Ianniello/Laudadio, Isabella Ragonese, Moscato) con maestri della scena italiana come Roberto Latini, la compagnia Scimone/Sframeli, senza dimenticare la danza di Enzo Cosimi e Dewey Dell. Da notare la presenza del gruppo Frosini/Timpano con Acqua di colonia, spettacolo che prosegue un discorso dentro alla storia delle Orestiadi in una riflessione attorno alle due sponde del Mediterraneo.

Di questo e altro abbiamo parlato con Claudio Collovà, regista e direttore artistico del festival da nove edizioni.

Gibellina, oggi. Ci introduce il festival e il luogo in cui si svolge?

Gibellina è un luogo speciale, unico. Dopo il terremoto del Belice c’è stata una nuova “fondazione” della città attraverso l’arte e il gesto artistico, attraverso la presenza e il lavoro di artisti del teatro, della danza e della musica, ma anche con le idee e i progetti di importanti architetti e urbanisti contemporanei come Marcella Aprile, Franco Purini, Pietro Consagra, Ludovico Quaroni, Ute Pyca, Arata Isozaki, Francesco Venezia, Roberto Collovà, Franco Purini, Laura Thermes e altri. L’arte dunque non come abbellimento, ma come presenza sostanziale, fondativa. Il festival nasce nel 1982 con l’Oresteia di Emilio Isgrò, e quindi questa è la trentacinquesima edizione. La sede è al Baglio di Stefano, antica fattoria fortificata poi ricostruita dopo il terremoto. Siamo in una collina, in alto, vicino alla Montagna di sale di Paladino, distanti dalle rovine della città vecchia e dal Cretto di Burri, la più grande opera di land art del mondo che è stata restaurata e completata proprio quest’anno. La Fondazione Orestiadi organizza diverse attività come mostre, concerti, spettacoli di danza, workshop e residenze, proiezioni, e anche il festival di teatro che dirigo rispecchia questa diversità disciplinare. Chiaramente si tratta di una rassegna che nel tempo è cambiata molto, diverse sono state le linee date dalle direzioni artistiche, ma la missione non è mai stata diversa. Qui hanno lavorato direttori come Franco Quadri, Gianfranco Capitta, Roberto Andò, fino ai più recenti come Franco Scaldati. Un legame forte lo abbiamo con l’altra sponda del Mediterraneo, le Orestiadi hanno infatti anche avuto una sede dentro la Medina di Tunisi. Si tratta di una relazione ancora in essere, anche se al momento un po’ in sospeso dopo il periodo delle Primavere Arabe.

Gibellina, come stava raccontando, ha una tradizione importante anche dal punto di vista delle arti visive, dell’architettura, della land art. Cosa significa, attraverso il teatro, rapportarsi a questa storia?

Seguo le attività della Fondazione fin dai primi tempi. Allora la missione era chiara, si trattava di ospitare in residenza i più grandi artisti offrendo loro un contesto in cui provare e creare. Qui si sono fermati per alcuni mesi personalità come Philip Glass, che ha provato con quaranta attori La belle et la bete nel 1994, Thierry Salmon è rimasto sei mesi con le sue Troiane nel 1988… io stesso ho provato tre mesi La sposa di Messina, messa in scena da De Capitani nel 1990. Ovviamente potremmo parlare degli stessi Paladino e Burri, delle macchine sceniche di Arnaldo Pomodoro, che sono state messe a punto qui per la prima volta, o dei lavori monumentali di Mario Consagra. Il concetto era quello di una “fabbrica creativa” con lunghe permanenze, sostenute da operazioni produttive e culturali oggi impensabili. A livello produttivo, in effetti, si è trattato di qualcosa di abbastanza simile alla committenza rinascimentale, grazie agli sforzi e alla volontà del Senatore Ludovico Corrao, fondatore delle Orestiadi che chiamava a raccolta artisti affini intorno a dei progetti specifici. La mia dunque è una eredità in qualche modo “pesante”, che ho inteso rinnovare prima di tutto cercando di costruire un passaggio, una trasmissione fra le generazioni. Oggi le Orestiadi sono un festival di ospitalità dove è possibile venire a vedere sia i maestri che proposte emergenti. È un festival di frontiera, probabilmente l’unico festival siciliano che presenta un teatro di artisti in grado di esprimere percorsi coerenti con una poetica ben definita. Mi piacerebbe inoltre, in futuro, tornare all’idea di una residenza diffusa degli artisti, creando le condizioni affinché questo passaggio si sostanzi anche in percorsi formativi. Anche attraverso una scuola. Le Orestiadi dovrebbero inoltre tentare di costruire una memoria storica, sempre attraverso il passaggio generazionale di cui parlo. Per esempio, quest’anno di Enzo Moscato abbiamo ospitato Il compleanno, spettacolo del 1986. Mi piace pensare a un giovane di 25 o 30 anni di fronte a uno spettacolo attualissimo, ma scritto trent’anni fa. È successo anche in passato che siano stati ospitati spettacoli in una certa misura storici.

Di quale teatro abbiamo bisogno oggi? Nella presentazione non si parla di “teatro contemporaneo” ma di sogno, poesia, surrealtà…

Mi interessa quel teatro capace di gettare uno sguardo sulla realtà che sia più complesso della semplice rappresentazione. Gli artisti in programma in qualche modo “esistono in scena” e non rappresentano: da Latini a Scimone/Sframeli, da Servillo a Frosini/Timpano. È un teatro che produce una visione alterata della realtà, che ha a che fare con il sogno. È un teatro che chiede molto al pubblico, e infatti da noi gli spettatori – solo in minima parte addetti ai lavori – sono attenti, silenziosi e molto partecipi, anch’essi in cerca di quello che la realtà nasconde. Questo avviene anche nei casi più “accessibili”, per esempio Toni Servillo legge Napoli, un’operazione che svela tratti nascosti di una città che tutti pensiamo di conoscere, o nella surrealtà siciliana di Amore di Scimone/Sframeli.

Parlando di pubblico, molti sono i percorsi di approfondimento e riflessione..

Il nostro è un pubblico affezionato a un luogo che possiamo definire metafisico. È un pubblico disponibile a imparare a vedere, come dice Rilke, e mi piace immaginare che questo possa essere anche un luogo utile e importante anche per chi studia il teatro e vuole farne parte. Credo ci sia molto bisogno di tornare a guardare i maestri, e tornare a un dialogo non sterile sulle poetiche che qui si presentano. La mia sensazione è che oggi viviamo una frammentazione che spesso ci limita, ci rinchiude nelle nostre personali esigenze di sopravvivenza.

Cosa significa per voi lavorare in Sicilia, oggi?

Gibellina è a 80 km dalle grandi città, sia da Trapani che da Palermo, per venire qui è necessario un viaggio, posto che ci si trovi già in Sicilia. I festival del nord Italia, con solide tradizioni come per esempio Volterra o Santarcangelo, a noi giungono come echi lontani. Qui la dimensione è in ogni caso differente, facciamo uno spettacolo a sera, siamo esterni alla dinamica di rincorsa di un festival-vetrina, uniamo alla visione di spettacoli la proiezione di documentari, laboratori per spettatori e critici, visite al museo di Gibellina, percorsi internazionali di fotografia, atelier di arti visive.
Resta il fatto che a caratterizzarci è un certo isolamento, unito alle difficoltà del sistema culturale di questo paese (pagamenti promessi che non arrivano, ritardi burocratici, decreti sospesi ecc) che tutti conosciamo. Un isolamento che diventa anche discorso specifico, un immaginario che da sempre in qualche modo ci viene richiesto dal nostro pubblico, anche a livello estetico e di linguaggio.

Fra le attività che propone il festival c’è anche il laboratorio residenziale Crisi, progetto di formazione per giovani aspiranti critici, fotografi, illustratori e videomakers sul tema della critica, della comunicazione e dell’organizzazione teatrale a cura della studiosa e ricercatrice Vincenza Di Vita. Aperto a studenti e studentesse dell’Unione Europea, il laboratorio ha raccolto adesioni da diverse parti d’Italia e non solo. Vi partecipano Marie Couvert-Casterà, Camilla Ferrari, Isabella Giorgio, Eva Lipari e Stefania Mazzara Bologna coordinate appunto da Vincenza Di Vita, che ci racconta come si stanno sviluppando i lavori.

Ci incontriamo quotidianamente, solitamente la mattina è riservata a un lavoro più legato ai diversi social media, in base al programma del giorno. Il pomeriggio, invece, oltre che sulla scrittura ci concentriamo sulla produzione di video-interviste con gli artisti del festival, alla presenza della direzione artistica. Partecipiamo anche alle prove aperte, assistiamo al montaggio, insomma prendiamo parte a un percorso più “tecnico”, dietro le quinte. Ci stiamo anche sperimentando sulla recensione, ogni partecipante ne produrrà alcune dopo approfondite discussioni collettive. On line trovate il primo numero del giornale del festival, contiamo di produrne in tutto quattro. I partecipanti incontrano inoltre alcune figure di esperti, come per esempio il critico Paolo Randazzo, o il responsabile tecnico delle Orestiadi. Partecipano a visite guidate (per esempio al Museo delle Trame) e si confrontano con i documentari d’autore in cartellone, firmati dagli  allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia sede Sicilia. L’obiettivo generale, oltre ovviamente a quello formativo, è relativo all’abitare un luogo, un territorio, per comprenderlo a fondo, per conoscerlo e così  raccontarlo, mettendolo anche in relazione con le diverse provenienze di chi partecipa. Sul primo numero, per esempio, trovate un editoriale di Marie Couvert-Casterà, ragazza francese che studia a Londra, ma che è stata portata a riflettere sul Mediterraneo e in generale sull’idea di crisi che accomuna tanti luoghi.

Programma completo del festival www.fondazioneorestiadi.it
Orestiadi di Gibellina  XXXV edizione – 16 luglio / 24 agosto 2016

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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